domenica 24 Novembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

SINDACO FERRARA / Elezioni decise da chi non si asterrà e non andrà al mare

di Piero Di Antonio

Bologna, 1999, il partitone dell’Ulivo presenta al Parco Nord la candidata a sindaco della città rossa per eccellenza, tale Silvia Bartolini. Entrata e accoglienza da star, tra flash e microfoni tutti per lei, che non si sottrae. Una diva più che una candidata, spuntata tra le pieghe di un partito abituato a non perdere un colpo, almeno a Bologna.

Il 13 giugno si sarebbe votato per la successione a Walter Vitali. A molti osservatori quell’appuntamento appariva come pura formalità. Era o no Bologna la capitale della sinistra occidentale? Era o no l’emblema rassicurante di quel comunismo all’emiliana che di sovietico aveva ben poco?

Berlusconi, che proprio in un supermercato di Bologna aveva cominciato la sua avventura di miliardario populista, si era preso il Paese, mentre a governare il partito c’era Veltroni, che soffriva parecchio nel definirsi di sinistra. Preferiva, lui, il termine democratico, all’americana, come i colletti delle camicie che indossava. La città, nonostante tutto, aveva resistito all’ondata che arrivava da Destra. La tradizione sembrava reggere alla novità tracimante dei tempi.

Quella sera tutto lasciava presagire, da lì a pochi giorni, l’affermazione di quel modello politico, di efficienza e innovazione. Questi comunisti – in segreto l’ammettevano di malavoglia tutti – sapevano amministrare e di cose buone ne facevano. Nessuno credeva che un oscuro macellaio, tale Giorgio Guazzaloca, uscito dalla pancia democristiana della Bologna sazia e disperata -avrebbe potuto offuscare le magnifiche sorti e progressive dell’Ulivo.

Quel Guazzaloca, da vero outsider, scarpinava da mattina a sera per Bologna e parlava con tutti. A ben ripensarci non era uomo di Destra, ma un vero moderato, uno che vedeva e afferrava quali cose in città non funzionavano più come dovevano. Avvertiva e riusciva a interpretarli i malumori e i mugugni.

Il 13 giugno di 25 anni fa alle urne si presentò ai seggi il 78,85% di elettori: la Bartolini ottenne quasi 13mila voti in più del suo avversario (117.367 contro 104.565). Il ballottaggio, 14 giorni dopo, l’avrebbe assisa a Palazzo d’Accursio, sindaca della capitale della sinistra, sebbene un po’ annacquata, d’Italia. Ma la parte della città scontenta, che per decenni aveva premiato l’establishment per innegabili meriti, ebbe uno scatto imprevisto e imprevedibile: voleva in cuor suo punire quella coalizione fru-fru che non faceva più palpitare il cuore.

E  così l’Italia e l’Europa assistettero, incredule, alla fine della sinistra più forte del mondo occidentale, all’esaurirsi di un amore per estinzione dei sentimenti. Quell’elettore deluso si comportò nella maniera più semplice di questo mondo: non andò al mare, ma nemmeno al seggio. Non se la sentiva di sostenere un candidato di centrodestra, ma poteva benissimo, questo sì, starsene a casa. Che se la sbrigassero loro, i dirigenti di un Ulivo distratto, forse moscio e con poco mordente.

Risultato: più di 8 bolognesi su 100 disertarono i seggi del ballottaggio. Guazzaloca divenne sindaco distaccando di appena tremila voti la Bartolini (113.463 contro 110.389). Dopo Berlino (1989) cadde un altro muro, quello di Bologna e della sinistra emiliana.Quel giugno di 25 anni fa qualcuno scrisse che non furono i piccioni di Piazza Maggiore ad abbattere un potere che sembrava eterno, fu il voto popolare, mentre Guazzaloca lasciò ai posteri questa frase:Non sono io che passo alla storia, è il fatto a essere storico”. (Nella foto, Guazzaloca entra da sindaco a Palazzo d’Accursio)

La riconquista di Palazzo d’Accursio avvenne cinque anni dopo, richiamando in servizio un Cincinnato della Cgil, Sergio Cofferati, che il Pds-poi-Ds aveva messo da parte per via di quei milioni di lavoratori che aveva radunato due anni prima al Circo Massimo e fonte di malcelate invidie da parte dell’allora gruppo dirigente ex Pci.

Perchè questo racconto? Per rimarcare e ricordare che l’elettore di centrosinistra ha il palato fine, resta sempre aggrappato ai principi e coerente con la sua storia personale. Se non riesci a convincerlo – è la sua principale caratteristica – preferisce fare altro che stare ad ascoltarti, preferisce non rispondere alla chiamata del voto. E’ il suo modo di dissentire, ma di dire anche che le cose non vanno, che, sì, ti rispetto, e che, poiché non voglio umiliarti, stavolta mi limito a starmene a casa.

A Ferrara, cinque anni fa, la sinistra ha preso uno schiaffo non da poco. Ha perso il Comune per mano dell’allora trionfante Lega salviniana, e ora tenta di riconquistarlo. Ma la situazione politica è mutata. Le carte, questa volta, le dà la Destra di Fratelli d’Italia, sorniona come il suo parlamentare locale, Alberto Balboni, e aggressiva come la sua leader nazionale, Giorgia detta Giorgia. Oggi si vota anche, tra europee e comunali, per un consesso famigliare e di amici, per rafforzare una catena di affetti.

Se ci pensate, il riscatto del centrosinistra sarebbe un’impresa storica, poiché metterebbe in mostra orgoglio e reattività. Il suo compito a pochi giorni dal voto, è di non sottrarsi alle imprese con la convinzione di potercela fare. Altrimenti nessuna squadra  accetterebbe di giocare la finale di Champions League.

Ma per riuscirci, una coalizione progressista deve prendere coscienza dell’importanza dell’elemento che può riportarla alla vittoria: l’alta affluenza, che si ottiene suscitando interesse per il voto e per chi lo chiede. In altre parole, deve ribaltare di 180 gradi ciò che avvenne 25 anni fa a Bologna: far tornare in massa i suoi simpatizzanti alle urne e impedire che la scarsa affluenza conceda alla Destra, da Ferrara a Roma, la possibilità di riposare sugli allori.

I margini per la  vittoria ci sono tutti. Stavolta il candidato è Fabio Anselmo, non è un personaggio uscito dai partiti, ma una figura specchiata di professionista, un coraggioso avvocato, una persona perbene che non si atteggia a divo. Capeggia una lista civica, come dire, i partiti sono importanti ma non dominanti. Dall’altra parte si vota per la riconferma di un sindaco che, vista la mala parata per la Lega, si è accostato con ammirevole tempismo a Fratelli d’Italia che appare a tutti i ferraresi come il vero dominus della coalizione.

La gran parte dei cittadini si forma un’opinione  e sceglie per chi votare nelle due settimane che precedono l’apertura dei seggi. Più della propaganda e degli slogan, più della scandalosa campagna di affissioni messa in atto dal centrodestra (a proposito, quanto è costata? chi l’ha pagata? con quali soldi?), e più dei sondaggi sbandierati ad arte a seconda di chi li commissiona, più dei convincimenti, delle frasi fatte e delle delusioni che ciascuno attribuisce alla politica, l’affluenza sarà, abbinata alla coerenza, il fattore determinante di questa elezione.

Perché questa affermazione? Leggendo i dati ufficiali si torna alla forza dei numeri. Cinque anni fa, il 28 maggio, al primo turno, con un’affluenza del 71,5%, Fabbri ottenne 36.629 voti (48,4%) contro i 24.009 (31,8%) del dem Aldo Modenesi. C’erano però anche le candidature di Mantovani dei Cinque Stelle, conquistò 5.048 voti (7,1%), e di Roberta Fusari, lista civica, che di voti ne prese 6.525 (8,6%). Percentuali sufficienti per giocarsi la partita. Il 10 giugno 2019, scontro a due di ballottaggio, Fabbri aumentò il suo bottino di appena 875 voti arrivando a 37.504 consensi (56,8%). Modonesi riuscì a conquistarne 4.552 in più rispetto al primo turno. 28.561 fu il dato finale (43,2%) del tutto insufficiente.

Che cosa era avvenuto di politicamente rilevante? Che l’affluenza era crollata del 10%, che parte dell’elettorato di sinistra era rimasta a casa e che pesava l’atteggiamento ambiguo degli elettori del Movimento Cinque Stelle. Non ci furono, da quelle latitudini, inviti a votare il candidato dem, e in molti, sostengono gli studiosi dei flussi elettorali, finirono con l’appoggiare l’attuale sindaco.

Questa la storia scritta dai numeri e dalle vicende passate, che ci dicono quanto sia importante riportare alle urne i delusi della sinistra e della poltica in generale, e quanto sia importante che chi si professa in questi frangenti estimatore del campo progressista lo dimostri davvero, evitando di saltellare, l’8 e 9 giugno, da una parte all’altra della scheda elettorale.

 

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