venerdì 22 Novembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

Farinella: progettare città dove non si dorme mai per terra

La consigliera comunale Ilaria Baraldi di recente ha scritto una lettera alla stampa ferrarese con cui denunciava l’indifferenza nei confronti di coloro che non hanno nulla e che dormono per strada. Romeo Farinella, architetto-urbanista e professore ordinario di Progettazione urbanistica dell’Università di Ferrara, ha pubblicato al riguardo questo articolo su  Periscopio, quotidiano online indipendente, che proponiamo anche ai nostri lettori.

di Romeo Farinella *

Quando Ilaria Baraldi pone il problema delle persone che dormono per terra, individua un tema cruciale, di cui spesso ci dimentichiamo quando parliamo di politiche urbane, di rigenerazione e spazio pubblico.

Mi riferisco alle disuguaglianze e alla miseria che contraddistinguono molte delle nostre città; una condizione che diventa evidente ai nostri occhi quando incontriamo qualcuno che dorme per strada.

In molte città del mondo si tratta di una condizione normale e accettata come tale. Non mi riferisco solo alle città del global south, ma anche a molte grandi città europee dove può capitare, come a Parigi, di passare nel periodo natalizio davanti alle vetrine sfavillanti e animate dei Grandi Magazzini e vedere dall’altra un dormitorio disteso lungo tutto il marciapiede. All’apertura dei magazzini questo mondo notturno sparisce come d’incanto.

Quando noi architetti disegniamo nuovi spazi pubblici, per far vedere come sarà o come potrebbe essere la nostra città, questi sono sempre pieni di gente gioiosa, giovani coppie con bambini che passeggiano nel parco, mentre i ragazzini giocano con lo skateboard, le ragazze fanno ginnastica ritmica e gli anziani conversano tra loro seduti su comode panchine.

Il conflitto, la marginalità, la miseria è bandita da queste rappresentazioni, che devono rassicurarci, raccontandoci spesso delle bugie. Wislawa Szymborska in una sua bella poesia afferma di amare le mappe perché sono bugiarde, nascondono i conflitti e ci parlano di un mondo che non è di questo mondo.

Giorgio Manganelli con il suo consueto cinismo, raccontandoci un suo viaggio in India, ci descrive invece questo mondo, mostrando la miseria che si ritrova nelle strade delle città e ci indica la strada per non restarne sopraffatti, emotivamente e fisicamente: essere indifferenti. Usare quindi la stessa arma degli abitanti locali: scansare l’ostacolo senza guardare.

A ben vedere lo sviluppo generato dalla rivoluzione industriale si è fondato sull’intreccio miseria/opulenza o povertà/ricchezza. La miseria londinese o parigina, raccontata da tanti scrittori tra metà Ottocento e inizi del Novecento, è il substrato che ha alimentato il benessere delle metropoli occidentali.

Bernard Mandeville nella sua riflessione intitolata La favola delle api, individua nello sporco, nel cattivo odore, nel degrado della Londra settecentesca l’indicatore di quel benessere e di quella ricchezza prodotta dai commerci internazionali che daranno vita alla rivoluzione industriale. Le opposizioni ordine/disordine, pulizia/sporcizia, igiene/malattia, risorsa/sfruttamento hanno in fondo generato tale modello di sviluppo che è causa della crisi ambientale che stiamo vivendo.

Nel 1889 Charles Booth pubblica un’indagine durata quattordici anni, intitolata Labour and Life of the People in London. Un problema devastante, quello della miseria urbana, che richiede delle soluzioni abitative alternative ai marciapiedi e agli anfratti di Soho, di Whitechapel e dell’intero East London.

Nel 1832 l’avvocato Edmund Chadwick introduce con le Poor Laws (leggi per il controllo della povertà e della miseria) dei modelli residenziali denominati workhouse, desunti dal panopticon, il carcere pensato e progettato da Jeremy Bentham che presuppone una sorveglianza asimmetrica (come sostiene il filosofo francese Michel Foucault: il controllore può vedere ma il controllato no).

Le workhouse (evoluzione dell’Albergo dei Poveri) introdotte dalle Poor laws e criticate da Charles Dickens nel racconto di Oliver Twist, erano di fatto ospizi per lavoratori indigenti dove vigevano condizioni molto dure che sconfinavano nella reclusione e nella segregazione. Le famiglie venivano separate: i genitori dai figli e i mariti dalle mogli mentre il cibo era volutamente economico e al limite della decenza (la stessa logica delle Maison des esclaves africane). Una risposta politica alla miseria.

L’ipocrisia borghese in quei decenni, e ancora oggi, ha sviluppato una forte cultura filantropica, finalizzata al portare sollievo ai poveri, ma non a combattere le disuguaglianze. Per contrastare queste si richiede una scelta di campo politica che potrebbe consentire al diseguale di diventare come me, mentre la dimensione caritatevole porta sollievo a qualcuno che è comunque destinato a rimanere povero.

I meccanismi segregativi (e non educativi) e le disparità tra povertà e ricchezza, alla base del nostro modello di sviluppo e della nostra idea di progresso, ancora permangono in molte dinamiche e processi della nostra società (basti pensare al recente Decreto Caivano) ma diventano evidenti ed eclatanti nei rapporti tra Occidente e Global South.

Oggi nel pianeta si stanno creando numerose situazioni urbane esplosive, delle vere e proprie città residenziali, composte da centinaia di derelitti, che vivono nei marciapiedi, sotto i ponti o nelle piazze delle città del Sud America ma anche in Europa e in Italia.

Il problema dei moradores de rua, come vengono definiti in Brasile coloro che dormono nelle strade, va oltre la favela o lo slum, che comunque, pur nella sua informalità, è uno spazio strutturato ed è una soluzione a un problema.

Oggi il tema delle disuguaglianze si deve confrontare anche con i temi posti dalla crisi climatica. Non so se l’innovazione tecnologica renderà smart ogni nostra azione quotidiana, in ogni caso non si sta configurando come un diritto per tutti e una grande parte dell’umanità non ne avrà accesso.

Senza aiuti umanitari seri, e non utilizzati come leva per alimentare governi o poteri locali compromessi con gli interessi occidentali, senza una redistribuzione della ricchezza, senza politiche sociali non sarà possibile ricomporre le fratture sociali e razziali che infiammano la gran parte del mondo.

Amartya Sen già vent’anni fa, nelle sue riflessioni sul rapporto tra sviluppo e libertà, evidenziava come il mondo sia da un lato caratterizzato da una opulenza senza precedenti mentre le privazioni, la miseria, l’oppressione diventano sempre più grandi. Il neoliberismo ha radicalizzato una organizzazione sociale che ha reso evidenti le disuguaglianze, ha reso fortemente gerarchico il sistema economico mondiale che non mette i vari paesi in condizione di lottare (o di affrontare problemi come quelli posti dalla crisi ambientale) ad armi pari.

Thomas Piketty ha più volte evidenziato come, secondo la Banca Mondiale, nel pianeta circa un centinaio di paesi possono essere ritenuti ad “alto reddito” e la contribuzione dello 0,03% del prodotto interno lordo consentirebbe di ottenere le risorse necessarie per far fronte alle crisi umanitarie mondiali attraverso l’istituzione di agenzie indipendenti in grado di operare reinventando forme di multilateralismo globale.

Del resto da tempo i Paesi in via di sviluppo chiedono di poter utilizzare i propri bilanci pubblici per interventi e politiche strutturali finalizzate allo sviluppo e alla equità economica e sociale senza dover essere, sempre più frequentemente, costretti ad intervenire con azioni di soccorso, prevenzione, emergenza in situazioni generate da cambiamenti climatici di cui sono responsabili per il 3% (almeno l’Africa).

Il colonialismo economico, “urbanistico” e segregativo non è mai morto, lo vediamo anche oggi nelle città del sud del mondo, interessate da ricchi progetti di urbanizzazione che impongono ipocrite smart e green city all’europea nei deserti africani o nelle foreste tropicali.

A São Paulo la costruzione del quartiere di Higienópolis inizia alla fine dell’Ottocento, su di una altura attraversata dai venti e circondata dai quartieri poveri dove la febre amarela e altre epidemie imperversavano. Nei medesimi anni, la legge del 1888 abolisce la schiavitù ma sancisce la nascita dei quartieri informali perché gli schiavi (neri) vengono liberati ma non assistiti.

La ricca borghesia parigina e londinese abitava a ovest perché li arrivavano i venti che spostavano lo smog (la nebbia) a est, dove abitavano gli indigenti. Oggi Dubai viene presentata come la città più felice del mondo grazie alla qualità dei suoi spazi costruiti nel deserto, ma il 90% della popolazione è costituita da immigrati dall’India, Pakistan, Bangladesh o Filippine che hanno costruito questa fantasmagorica città ma che non hanno diritti e ai quali vengono prelevati i passaporti, e obbligati a vivere in grandi camerate senza aria condizionata.

Una nuova forma di schiavitù. Le informazioni che ritroviamo nel World Inequality Database ci parlano di una situazione globale dove le discriminazioni razziali, retaggio delle antiche dominazioni coloniali, sono associate all’impatto dell’iper-capitalismo finanziario contemporaneo.

Inoltre, le nostre città sono piene di edifici vuoi e non usati per convenienze economiche. L’ ex Hotel Columbia, situato in Avenida São João, nº 588 a São Paulo è diventato un simbolo di chi lotta per il diritto alla casa. Da vent’anni l’edificio ospita novantuno famiglie a basso reddito. Prima dell’occupazione, l’immobile era vuoto e abbandonato da circa trent’anni, senza essere utilizzato dai proprietari.

La lotta degli abitanti è quella di rivendicare il diritto alla casa nel centro di una città dove tanti edifici sono vuoti o abbandonati. Lo sfratto, pendente da anni, rischia di lasciare tutti in strada, compresi bambini, adolescenti, anziani e persone con problemi di salute, in una città piena di moradores de rua. Siamo andati a trovarli per conoscere la loro situazione e sostenere la loro lotta.

Questa ocupação è gestita dal MTSC (Movimento Lavoratori Senza Casa) coordinato da Carmen Silva e richiede politiche pubbliche per la casa per chi, pur lavorando, è povero. Carmen da quasi tre decenni lavora in difesa delle persone senza dimora ed è professoressa del Nucleo Donne e Territori del Laboratorio Arq. Futuro de Cidades.

Si stima che i processi di migrazione diventeranno sempre più intensi, non solo verso l’Occidente ma anche internamente al continente africano. Le migrazioni sono in crescita e hanno caratteristiche molto diverse dai processi che abbiamo conosciuto in Europa tra Ottocento e Novecento. L’emigrazione storica aveva un’origine e una destinazione.

Oggi nelle migrazioni di massa, qualunque sia il motivo per cui si lascia la propria terra, alla coppia origine-destinazione va aggiunto il transito che può durare anni. Un periodo nel quale si vive nell’incertezza, nella precarietà e nel pericolo, essendo i migranti ostaggi di situazioni che non si controllano, come dimostrano i confini dell’Unione Europea.

Come garantire condizioni abitative civili, seppur transitorie, a una popolazione in movimento? In quali insediamenti alloggiare queste persone in transito? Il concetto di Transitory Urbanism è stato introdotto in esperienze in corso in varie parti del mondo: Vienna, Parigi, in Olanda o nel progetto brasiliano di empowerment femminile Arquitetura na Periferia. Tale concetto, al di là delle inevitabili retoriche, associa pratiche di design initiative a politiche di community developement.

Si parte da una dimensione operativa locale attivando la partecipazione degli abitanti ed agendo in prima battuta sulle risorse locali, sui canali di approvvigionamento brevi, sulla razionalizzazione dell’utilizzo degli spazi e delle risorse a partire da ciò che esiste. Si tratta di un processo di riattivazione dei cicli di vita locali, che dovrebbe essere improntato alla sobrietà e alla eliminazione dello spreco di suolo, di risorse, di beni materiali.

Il pensare una urbanistica della transitorietà, necessaria anche per far fronte a situazioni improvvise quali, ad esempio, quelle climatiche, non può essere relegato alle politiche dell’ emergenza ma deve divenire prevenzione, capacità di gestione di processi che, essendo da tempo in movimento, si possono anticipare, ed anche una città come Ferrara, che non vive le contraddizioni e i conflitti delle città che ho citato, ma che non è al di fuori da queste dinamiche, deve porsi questi obiettivi.

Il dibattito va dunque aperto o riattualizzato, in particolare in questo momento di grande progettualità per il futuro della città. I vari attori economici, sociali, associativi vanno coinvolti ma, attenzione, non si tratta di una questione settoriale o puramente umanitaria: è una questione politica.

* Romeo Farinella, architetto-urbanista e professore ordinario di Progettazione urbanistica presso l’Università di Ferrara. Si occupa di problematiche urbane e paesaggistiche da almeno trent’anni. Prima di approdare a Ferrara ha vissuto in diverse città, tra cui Roma e Parigi e quest’ultima è diventata uno dei suoi temi principali di ricerca. Oltre a Ferrara ha tenuto corsi anche in Francia (Lille, Parigi), Cina (Chengdu), L’Avana e São Paulo e Saint Louis du Senegal. È stato direttore per alcuni anni del Centro di Ateneo per la Cooperazione allo Sviluppo Internazionale di UNIFE.

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