domenica 24 Novembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

Autonomia differenziata? Meglio sognare e costruire un Sud diverso

Il ministro leghista Roberto Calderoli ha puntato tutto il suo capitale politico sull’autonomia differenziata, ovvero una netta separazione di risorse e attribuzioni di legge tra regioni del Nord e quelle del Sud. La sua proposta però ha avuto una approfondita critica da parte dei tecnici e degli esperti del Senato.

L’autonomia differenziata, sostengono, incrementa il divario tra Nord e Sud, il tutto condito con dati e motivazioni. Insomma, così l’hanno compresa in molti, servirà a costruire un solco difficilmente superabile tra il ricco Nord e un Sud che perde progressivamente abitanti e risorse.

Se si dovesse arrivare alla discussione parlamentare e se fosse approvata, l’autonomia provocherebbe uno sconquasso istituzionale e sociale di grandi proporzioni. Ma un’estesa analisi del concetto che sta alla base dei desiderata leghisti, a mio avviso e al parere di molti, dovrebbe portare a una discussione vera ponendo alla base la vera questione italiana.

Anzi, le due questioni che da decenni pesano sul destino del Paese: la questione del Nord, atteso a un futuro produttivo e innovativo, e quella del Sud, imprigionato in una secolare arretratezza che, nonostante i progressi vantati dal dopoguerra a oggi, reclama un approccio diverso sul suo divenire.
A questo punto è un bene chiedersi: che fare? quale strada indicare al legislatore e alla classe dirigente del nostro Paese?  Difficile esprimersi. Vale la pena, allora, riproporre le idee che un grande meridionalista napoletano, Domenico Rea, inserì in un libro “La fabbrica dell’obbedienza” (Feltrinelli). Sono attuali, anche se avvolte nel sogno che qualsiasi meridionale culla da sempre, soprattutto quando viene a contatto con realtà diverse e, diciamolo, più sviluppate.
Ecco una recensione di quel libro pubblicata il 10 gennaio scorso. Il romanziere e saggista napoletano ci insegna parecchie cose, anche ad afferrare il vero problema dell’Italia attuale, altro che autonomia differenziata. Buona lettura.
                 Meglio il rimpatrio dei congedati

“Quelli lì stanno ancora aspettando l’elemosina di fabbriche che non verranno”. Quelli lì sono i meridionali ben descritti, con pregiudizio e una punta di stronzaggine, da coloro che vivono al Nord e che non esitano a esprimersi in questo modo anche con l’interlocutore che viene proprio da lì. Il tema è vecchio, secolare, irrisolto. Eppure morde ancora la carne di chi ha dovuto abbandonare “pizza, ammore e mandolino”.

Diciamocelo, brucia parecchio, anche se ci abbiamo messo del nostro, e tanto, per costruire lo stereotipo del meridionale da esportazione. E allora? Allora bisogna avere il coraggio di farsi portatori di nuove proposte. “Altrimenti – come ci ha indicato Ermanno Rea* – il Sud continuerà a elemosinare fabbriche che non arriveranno mai (o verranno per disumanizzare ancora di più, come dice Marco Revelli) dedicandosi nel frattempo alle molteplici arti dell’arrangiarsi”.

Dobbiamo, invece, issare una nuova bandiera, farci portatori di un progetto “magari troppo audace, ma proprio per questo in grado di far sollevare un po’ di teste verso il cielo”. Dobbiamo ricorrere, in altre parole, alla chiamata dei congedati. Chi va a Londra, chi a Berlino, chi a Barcellona (spesso per vivere peggio, non fatevi ingannare da certe inchieste giornalistiche)…

E il sogno di metterci al servizio della terra da dove siamo venuti? Non esiste più? E’ soltanto un sogno? un’utopia? Riflessioni urgenti, soprattutto se si rilegge l’appello di un giornalista in corsa per dirigere un quotidiano del Sud: “Sogno di fare “a chiammata d’e cungedate”. E’ un sogno, è vero, ma perché non immaginare un biblico rimpatrio dei migliori cervelli del Sud che oggi (ne conosco tanti) riempiono banche, giornali, ospedali, tribunali, case editrici, albi professionali, università – dal Veneto alla Lombardia, dal Piemonte all’Emilia?

Ermanno Rea si è chiesto se sia mai stata condotta una ricerca per quantificare, negli ultimi 60 anni, il contributo offerto dal Sud al resto d’Italia in termini di “intelligenza”. Tralasciando le braccia del lavoro più umile di quell’emigrazione di cui nessuno si ricorda più. Una smemoratezza che ormai è entrata a far parte della nostra instabilità di italiani.

Ecco, quindi, il sogno del nuovo Sud: il rimpatrio dei congedati.
Un sogno – Rea dixit – che ogni notte si accresce di nuovi scenari, piazze e strade scintillanti e ordinate, balconi fioriti come non se trovano neppure tra il Sud Tirolo e l’Austria, volti allegri e distesi di gente che crede fermamente in qualcosa, in se stessa, in quello che fa, nella propria felice parsimonia, nello straordinario patrimonio naturale e culturale di cui il cielo ha voluto far dono e che ha imparato a rispettare e a valorizzare”.

Ma questa economia virtuosa è praticabile o è una poetica ipotesi per le anime belle? Oppure è un’inutile ciambella di salvataggio per chi è destinato ad affogare?
La gente al Sud è in preda a una “paralizzante disperazione”. Soltanto un trauma spaventoso, un dolore, un evento inaudito possono risvegliarla dalla passiva auto-contemplazione del proprio disastro.

Ecco allora che arriva il momento di giocarsi “come – scrive Rea – la carta della solitudine, del distacco dal Nord, in nome dell’ottimismo, antidoto alla depressione, alla povertà, alla malinconia. Insomma una Repubblica della Sobrietà che sconfigga quel senso di vuoto che sopravviene quando ti accorgi dell’irreparabilità del tuo vivere precario. Gli scettici diranno: è difficile che le città più lontane dalla virtù conquistino un tale traguardo. Dubbio fondato – e cito ancora Rea – ma nessuno possiede tanta volontà di salvezza quanto chi è più prossimo ad affogare. (* Ho espunto alcuni passaggi da La fabbrica dell’obbedienza, ed. Feltrinelli, ndr).

Omaggio a un uomo che aveva capito molto dell’Italia e degli italiani, Ermanno Rea. Che di noi disse: “Siamo figli della Controriforma, abbiamo un’educazione pluricentenaria che ci rende diversi dal resto d’Europa. Il rifiuto di Giordano Bruno è stato il più eroico NO mai pronunciato. Da allora il popolo italiano ha smesso di dire No”.

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