di Piero Di Antonio
— Non vi dice nulla, di questi tempi, la Spagna? Eppure sono sotto gli occhi di tutti le straordinarie prestazioni di questo popolo afflitto dalla trentennale dittutura franchista fino al 1975 e oggi al centro di un’esplosione non soltanto sportiva. Sorvoliamo sulle performance economiche e sociali, e sull’organizzazione che ha saputo costruire nei vari campi. E proprio dallo sport, per restare all’attualità, arriva la grande lezione che un Paese giovane e dinamico sta dando all’Europa e, in particolare, all’Italia.
Un giovanissimo tennista, Alcaraz, conquista Wimbledon per la seconda volta battendo dall’alto di una classe eccelsa e quasi unica Djokovic. A ventun anni. Ma quello che ha stupito il mondo del calcio – a parte i superficiali commentatori delle tv italiane impegnati a guardarsi allo specchio oltre che a insegnarci come si gioca a pallone ricorrendo ad astruse enunciazioni geometriche tra diagonali, scarico, statistiche, 4-3-3, 4-4-2 e cabala varia… – è stata la nazionale delle Furie Rosse che ha conquistato il quarto titolo europeo in virtù di un gioco stellare, leggero, avvincente, poggiato, altro che chiacchiere e titoli esagerati, sulla classe e sulla tecnica dei suoi calciatori affidate a un tecnico federale come lo erano ai bei tempi azzurri Valcareggi, Bearzot, Vicini.
Calciatori che giocano e si divertono e che non si dilungano in atteggiamenti vittimistici, in cali psicologici e di energie mentali come ci hanno abituato quelle pippe che hanno dimostrato di essere gli italiani allenati da tale Spalletti.
Tennis, calcio, mettiamoci anche il basket e gli sport dei motori… la Spagna ha fatto passi da gigante in virtù di una scelta politica e umana invidiabile. Ha puntato sul rinnovamento e ringiovanimento delle sue classi dirigenti, nello sport come nella gestione della cosa pubblica. Ha cementato un orgoglio civile difficile da riscontrare in altri luoghi. La rappresentanza dei meriti è in mano ai giovani. In Italia la seconda carica dello Stato conserva i busti di Mussolini, il che è tutto dire.
Partiamo da un grande campione della racchetta, Nadal, che non hai mai voluto lasciare la Spagna, nonostante i suoi favolosi guadagni. “Pago le tasse nel mio Paese – ebbe a dire, orgoglioso, mentre alzava trofei tra un torneo e l’altro- e sono contento di farlo. Vivo bene in Spagna e posso garantire un futuro sereno alla mia famiglia. Cosa pretendere di più”. Avete sentito qualcuno dei celebrati campioni italiani esprimere concetti simili, se non banalità e frasifatte che inducono o mettere mano in un nanosecondo al telecomando? Nadal è l’espressione, e non unica, di un campione vero, anche di stile e di appartenenza a una comunità.
In Italia, dopo la grancassa di Sinner, nessuno, tranne qualche isolata presa di posizione di un giornalista del Corriere (Aldo Cazzullo), ha osato eccepire sul fatto che il campione ai primi successi si sia subito trasferito a Montecarlo. “Ci sono bei campi da tennis per allenarsi” avrebbe detto, rasentando la comicità, per giustificare il suo amore per quel paradiso fiscale, tralasciando un aspetto fondamentale: in quel ricovero di yacht e noiosi miliardari (è uno dei luoghi più tristi d’Europa) le uniche imposte sono le mance che si danno ai camerieri.
Fare paragoni è rischioso, si può essere smentiti nel giro di qualche ora, è indubbio, però, che la Spagna ha molto da insegnarci, non solo nello sport, dove ha avuto il coraggio di far esordire in un campionato europeo un ragazzo di 17 anni venuto dall’Africa, e un suo quasi coetaneo con lo stesso destino. In Italia ricordate le risate e il dileggio all’indirizzo di Balotelli, che sarà stato anche una testa calda, ma almeno sapeva giocare a calcio non come i tatuati e i presuntuosi di casa nostra. Più che aiutarlo a correggere le sue manchevolezze lo abbiamo sommerso, il Balotelli, di critiche e di risate. E’ solo un esempio, non concentratevi soltanto su questo nome.
La conclusione che dobbiamo trarre da una rovente domenica di luglio è che il nostro Paese, stanco, arrugginito e rancoroso, ha necessità di mandare in pensione parecchi mandarini (di età, di pensiero e di poltrone, beninteso). Anche nel giornalismo. Non possiedono più l’energia, il coraggio e la passione per far andare avanti le nuove generazioni che, stanche di premere per voler entrare nei vari centri decisionali e dei lavori appaganti, preferiscono lasciare il baraccone-Italia. La sbandierata saggezza non è sufficiente, anzi non dice proprio nulla. Spesso è la foglia di fico che copre posizioni e incrostazione di potere e di privilegi.
E’ lo stesso destino, fateci caso, in agguato negli Stati Uniti, divisi tra un presidente 81enne e uno sfidante di 78. Che cosa possono dare in termini di freschezza, di prospettiva e di energia queste cariatidi della politica? Che ci dice questa lotta tra anziani? Che dietro di loro si muovono i burattinai delle lobby e dei colossali interessi familistici e di censo che escludono a priori qualsiasi intromissione di forze fresche e motivate. Liberare una poltrona in Italia richiede lo stesso sforzo che spostare il Colosseo.
Nell’assistere alla domenica sportiva di domenica 14 luglio (in Francia 235 anni fa fecero una rivoluzione niente male) sono stati questi i pensieri che hanno assediato chi scrive, mentre i ragazzi Nico Williams, Jamal, e mettiamoci anche l’inglese Palmer mostravano al mondo come si gioca. Con un’unica certezza: siamo diventati marginali. Moda, design e pizzerie non bastano più.