Una nuova forma di scambio si sta facendo strada nella cultura del consumo. Ha a che fare con l’acquisto, certo, ma soprattutto con la costruzione di un legame intimo tra consumatore e marchio, basato sul desiderio di comunità, su una complicità di valori, su un irrevocabile patto di fedeltà. Un interessante articolo sulla nuova cultura del consumo è apparso sul sito Link (idee per la tv, progetto editoriale dedicato alla televisione e ai media). Lo riproponiamo (courtesy of Mediaset-Rti)

di Priscilla De Pace *

 Questa estate ho acquistato un paio di scarpe grazie all’Intelligenza Artificiale. Sono scarpe vere, non uno di quei surrogati digitali che fino a qualche anno fa promettevano di sconvolgere il mercato della moda trasformando l’abbigliamento in merce immateriale. Le ho acquistate su un noto e-commerce internazionale, convertendo in un voucher i punti accumulati attraverso un programma fedeltà promosso da Microsoft. Trecento giorni di allenamento del motore di ricerca Bing, duecentocinquanta punti al giorno. Uguale: cinquanta euro di spesa su Zalando. Non il massimo della convenienza, ma per qualche motivo ero determinata a scoprire che effetto mi avrebbe fatto farmi pagare le scarpe da una big tech. Nonostante mi sia sempre dichiarata contraria ai metodi subdoli, spesso dissimulati attraverso la gamification *, con cui le aziende tecnologiche inducono gli utenti a svolgere piccole mansioni finalizzate all’addestramento dell’algoritmo, l’idea di una ricompensa mi ha indotta a interrogarmi sulla possibilità, seppur infima e marginale, di una convenienza per l’utente. Forse è ancora presto per pretendere la piena automazione, ma almeno possiamo ottenere un paio di sneakers in cambio di task quotidiani dall’impegno irrisorio. * (La Treccani definisce la gamification come l’utilizzo di meccanismi tipici del gioco e, in particolare, del videogioco – punti, livelli, premi, beni virtuali, classifiche – per rendere gli utenti o i potenziali clienti partecipi delle attività di un sito e interessarli ai servizi offerti)

Ogni giorno ero chiamata a rispondere a quiz su temi di attualità o intrattenimento ed effettuare almeno trenta ricerche sul motore per ottenere il massimo del punteggio. Poiché il training di Microsoft si basa sulla quantità delle informazioni ricevute, la qualità non è lontanamente contemplata né controllata: ho passato più di un anno della mia vita a digitare quotidianamente query tanto banali quanto casuali, come “cane”, “gatto”, “cacca”, “pasta fredda” e “meteo”, per poi chiudere il browser di Microsoft (e riaprire Chrome) non appena accumulati i punti desiderati. Non so se ne sia valsa la pena, ma se c’è una cosa che ho imparato in quelle settimane è che la distopia potrebbe essere più noiosa di quanto si pensi. Anche se non ho alcun rimorso per aver acquistato le mie nuove scarpe usando l’IA, ogni volta che le indosso non posso fare a meno di chiedermi se sia più spaventosa la prospettiva futura di dover sopravvivere combattendo robot ribelli o quella di passare il resto della vita a digitare “cane”, “gatto”, “cacca” in cambio di prodotti.

Di brugole e baci . I programmi fedeltà non sono più gli stessi. O meglio: sono ovunque, e ogni azienda li reinterpreta a proprio piacimento. Non bastano più i punti del supermercato, i bollini della Mulino Bianco e gli sconti fedeltà sul carburante, oggi ogni attività commerciale offre un sistema di ricompense personalizzato in cui il denaro speso viene tradotto in valute digitali arbitrarie e fantasiose. Acquistando da IKEA, per esempio, si collezionano le brugole, il corrispettivo virtuale di quelle chiavine esagonali che l’azienda include sempre nei propri pacchi per facilitare il montaggio fai-da-te. Spesso però i punti vengono rappresentati da entità astratte, quasi magiche: ci sono le stars di Starbucks, i likes di Mango, i dots di Max&Co. e i kisses di Kiko. Non è un caso che si tratti di marchi con una clientela principalmente femminile: le raccolte premi sembrano suggerire che non stiamo spendendo soldi, ma accumulando stelle e apprezzamenti che renderanno la nostra vita più piacevole e luminosa. Diverso, invece, è il vocabolario dei marchi che si focalizzano sulle performance atletiche o le attività outdoor: The North Face, per esempio, distribuisce peak points, mentre le app di allenamento Nike regalano badge per ogni traguardo raggiunto, i cui nomi spesso evidenziano l’aspetto emotivo della motivazione: “True Runmance”, “Resolution”, “First Date”.

In ogni caso, non si parla mai di programmi fedeltà, ma di community e di membership. L’acquisto non garantisce solo l’accesso a nuovi prodotti da consumare, ma il privilegio di entrare a far parte di una cerchia di spiriti affini: d’altronde come riconoscersi tra simili in questo cinico e frammentato ventunesimo secolo se non in base al logo sulla tazze di caffè che stiamo bevendo per strada? Se il prodotto in sé diventa meno rilevante, le esperienze invece acquisiscono valore e i nuovi programmi fedeltà ne promuovono in grande abbondanza. Lo scopo è dimostrare che un marchio non è solo un produttore di merce, ma un portatore di valori, pioniere di uno stile di vita. Ma poiché oggi di marchi-pionieri ce ne sono troppi, per invogliare i membri-clienti a farsi ambasciatori di un messaggio virtuoso piuttosto che di un altro, e quindi a riporre la propria fedeltà in un logo specifico, bisogna promettere ricompense sempre più coinvolgenti sul piano emotivo, piccole dimostrazioni che si è parte di qualcosa di più grande e che quella cosa non è il mercato neoliberista.

Da quanto punto di vista, la fidelizzazione è un cerchio perfetto: il cliente alienato è alla costante ricerca di una comunità grazie alla quale attutire il proprio senso di solitudine e riscoprire degli obiettivi significativi, mentre il marchio ha bisogno di un gruppo sempre più ampio di clienti alienati disposti a vedere nel catalogo merci l’illusione di qualcosa di più grande, la promessa di una vita migliore. Le stelle, le brugole e i baci non sono altro che una convenzione, un messaggio in codice attraverso cui azienda e consumatore dichiarano di essersi scelti.

Welfare consumista. “Ti premiamo per fare ciò che ami” dice Adidas, e infatti la multinazionale tedesca dispensa i suoi punti anche in base alle attività di allenamento registrate dagli utenti via app, così come fanno Nike e lululemon. The North Face invece premia i membri del proprio programma quando visitano i parchi e i monumenti nazionali d’America, mentre i brand che si distinguono per una spiccata attenzione alla propria impronta ambientale sfruttano il linguaggio della fidelizzazione per rafforzare la reputazione e costruire comunità virtuose: punti per ogni capo usato restituito nei negozi Patagonia, o per l’acquisto di tazze riciclabili nelle caffetterie Costa Coffee. E poi ci sono i premi: prodotti personalizzati, eventi esclusivi, programmi interamente dedicati alla beneficenza o al mondo della cultura. Mango, per esempio, permette di convertire i likes in biglietti del cinema, mentre The Body Shop regala ai suoi membri la possibilità di trasformare i punti in donazioni a enti selezionati. Insomma, se prima sceglievi il supermercato in cui acquistare anche in base alla sua campagna premi, che spesso si traduceva nella scelta tra chi aveva gli accappatoi di buona marca e chi il set di piatti in ceramica, oggi il voto di fedeltà avviene attraverso un processo molto più sofisticato.

A mandare un codice sconto di compleanno, infatti, ormai sono buoni tutti. La competizione si è spostata su un piano viscerale, sulla capacità di diventare un interlocutore affidabile e al tempo stesso imprescindibile. Non significa che la scontistica abbia smesso di essere rilevante, ma solo che per vincere la gara della fidelizzazione le ricompense devono essere accompagnate da motivazioni sempre più attraenti, perché ogni regalo nasconde l’invito a un nuovo potenziale acquisto, la sproporzione necessaria a confermare la lealtà del consumatore. Più investimenti (economici ed emotivi) si desidera ottenere tramite il programma fedeltà, più la promessa deve essere allettante: 20% di sconto e fai bene al pianeta, 20% di sconto e segui le tue passioni, 20% di sconto e ti sei guadagnata un’amica. Quest’ultima ricompensa è la più ambita e la più difficile da veicolare per un marchio, e infatti in Italia c’è riuscita solo una persona.

Se esistesse un trono di spade per la guerra alla fidelizzazione, Cristina Fogazzi – meglio nota come l’Estetista Cinica, fondatrice del marchio Vera Lab – ci starebbe comodamente seduta da anni. Il suo è uno schema irripetibile, tutt’al più imitabile. La sua comunità è un culto, le seguaci sono le Fagiane. Non ci sono premi ma sconti inviati direttamente dalla Cinica attraverso newsletter che attraversano l’etere con la potenza di un proclama a reti unificate. Solo che invece del messaggio di fine anno di Mattarella c’è Fogazzi che prima ti racconta una storia intima, poi ti fa ridere con tre gif in bassa risoluzione dal contenuto trash e infine ti molla uno sconto sugli stessi prodotti che hai acquistato appena una settimana prima. Ma ormai tu sei disarmata, coinvolta, fidelizzata, e diligentemente torni sul sito per mettere sei confezioni di bendaggi drenanti nel carrello.

La trappola della fedeltà. La verità è che la fedeltà dà vita a un meccanismo perverso, in cui il consumatore si trova intrappolato in un ciclo di aspettative e promesse che non vengono mai appagate a pieno. Il costo della fidelizzazione, per i fidelizzati, è altissimo. Se realizzati bene, infatti, questi programmi possono trasformarsi in uno strumento di manipolazione perfetto: il consumatore si ritrova con un surplus di vantaggi che aspettano solo di essere sfruttati e finisce per cedere alla pressione per timore che si tratti di un’occasione eccezionale, o per un meccanismo perverso che porta a interpretare una spesa non necessaria (ma a prezzo ridotto) come una forma di guadagno, e non il contrario (c’è chi la chiama girl math).

Ma farne esclusivamente un problema di pressione all’acquisto sarebbe riduttivo. Il lato oscuro della fidelizzazione svela anche il suo volto più seducente: davanti all’inflazione economica e alla mancanza di stabilità finanziaria, i programmi fedeltà infondono fiducia e conforto nel consumatore. Non è un caso che negli ultimi anni la risposta dei clienti a queste strategie sia stata oltremodo positiva: nel 2022 è stato osservato che l’80% degli americani era iscritto almeno a un programma, mentre nello stesso anno l’Italia è stata dichiarata il primo paese in Europa per utilizzo di carte fedeltà. Come spiega un’analista di mercato in un articolo su Vox, i consumatori più giovani sarebbero addirittura coinvolti nei programmi fedeltà senza usufruire dei benefici: il loro interesse risiederebbe infatti nella possibilità di sentirsi partecipi dell’identità del brand, e non di ottenere sconti o regali. “La gente ama essere lodata per aver speso soldi” sottolinea l’approfondimento. Una frase che si offre a molteplici interpretazioni: l’ennesima indicazione della malattia che affligge la società dei consumi, oppure il segnale che al consumatore serve un incoraggiamento in più a fronte dei sacrifici che si nascondono dietro un acquisto. O forse il sintomo che la fedeltà è essa stessa diventata merce di scambio: la tua devozione in cambio della possibilità di ricevere una conferma, di sentirti parte di qualcosa, di essere visto, riconosciuto, collocato in un inquadramento trasversalmente condiviso. Non è più una questione di status ma dello stato della tua carta: bronzo, oro, argento o platino. C’è posto per tutti nella società della fidelizzazione.

Qual è il costo invisibile della lealtà? I dati, ovviamente. L’acquisto è incoraggiato, ma non indispensabile. Sono le informazioni che offri per completare il profilo e ricevere dieci punti extra a fare la differenza, quel click sulla newsletter con codice sconto personalizzato, ogni piccolo momento di interazione. Anche le aziende, proprio come te, stanno portando avanti la loro silenziosa racconta punti, il cui premio finale non potrà mai essere ripagato, neanche da tutti i fornetti scalda brioche della Mulino Bianco messi insieme. Razionalmente sei consapevole che si tratta di una trappola, ma nonostante tutto non riesci a smettere di pensare che ti mancano solo cinquanta euro di spesa per ottenere i punti necessari all’erogazione di uno sconto per un altro acquisto ancora, o per partecipare alla maratona esclusiva con cui performerai meglio solo se acquisti l’ultimo completo ergonomico. Sai che hai regalato novemila minuti della tua vita a Bing e che, anche se li hai trascorsi digitando “cane”, “gatto”, “cacca”, hai donato a Microsoft informazioni e attenzione per un valore che di certo oltrepassa quello delle tue nuove sneakers. Eppure continui ad acquistare e fidelizzarti, perché la fedeltà è l’unica promessa di futuro rimasta. Nell’orizzonte privo di possibilità del presente, ti manda una notifica che è uno spiraglio di luminosa speranza. Per un attimo, intravedi la possibilità di un nuovo sconto, un biglietto del cinema gratis, una maglietta che ironizza sulle tue adiposità, un piccolo impulso dopaminico in un momento di vuoto.

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* Priscilla de Pace scrive di cultura digitale e società. È autrice della newsletter Una goccia e del saggio Al centro dei desideri. Consumo, nostalgia, estetiche digitali pubblicato per la collana Quanti di Einaudi (2023). LINK è curato dal marketing strategico di Mediaset – RTI, allarga lo sguardo dal piccolo schermo all’intero campo della comunicazione: analisi, riflessione sui contenuti e sui linguaggi, svelamento della macchina e dei suoi processi produttivi. Direttore editoriale è Federico di Chio, direttore Fabio Guarnaccia.

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