La scure dell’Antitrust Usa potrebbe abbattersi su Google in un procedimento che potrebbe concludersi con la scissione in più società (lo spezzatino) se il gigante tecnologico non aprirà il suo motore di ricerca alla concorrenza. Lo scrive oggi il Financial Times.
L’ipotesi è stata fatta dal dipartimento della Giustizia e arriva dopo che i procuratori federali hanno vinto un caso storico, lo scorso agosto. Quando cioè un giudice ha stabilito che Google ha violato la legge antitrust statunitense e etichettato l’azienda come “monopolista”. Il Dipartimento della Giustizia ha depositato un documento dove si considerano “rimedi comportamentali e strutturali” . In sostanza si impedirebbe a Google di usare il suo browser Chrome, Google Play Store e il sistema operativo mobile Android per dare un vantaggio al suo motore di ricerca.
Sul suo sito web il gruppo che ha sede in California scrive: “Dividere Chrome e Android li distruggerebbe” . “Una separazione forzata “cambierebbe il loro modello di business, -continua la nota- aumenterebbe il costo dei dispositivi e minerebbe Android e Google Play nella loro competizione con l’iPhone e l’App Store”. Inoltre l’azienda mette in risalto il fatto che la condivisione dei dati di ricerca e dei risultati con altri attori di Internet, “rappresenterebbe un rischio per la protezione degli stessi dati e la sicurezza”.
ll documento al quale fa riferimento il Financial Times descrive in dettaglio le sanzioni che il Dipartimento di giustizia potrebbe richiedere ad Amit Mehta, il giudice che presiede il caso (nella foto). I pubblici ministeri stanno “considerando rimedi comportamentali e strutturali” per impedire a Google di utilizzare prodotti come il browser Chrome, l’app store Play e il sistema operativo Android per dare al suo motore di ricerca un vantaggio rispetto ai concorrenti o ai nuovi entranti.
Il Dipartimento di giustizia potrebbe anche cercare di costringere Google a condividere i dati di ricerca degli utenti con i rivali e limitare la sua capacità di utilizzare i risultati di ricerca per addestrare nuovi modelli e prodotti di intelligenza artificiale generativa. Il documento di 32 pagine depositato dal Dipartimento contiene la proposta di rimedio iniziale e fa avanzare il processo alla seconda fase, in cui Mehta determinerà le sanzioni da imporre a Google.
Ad agosto, il giudice Mehta aveva stabilito che Google ha speso decine di miliardi di dollari in accordi esclusivi per mantenere un dominio illegale sulla ricerca. Nell’ambito della seconda fase del processo Google, il Dipartimento di giustizia e Google sono pronti a depositare le loro proposte di sentenza definitiva e gli elenchi dei testimoni rispettivamente il 20 novembre e il 20 dicembre.
Mehta ha fissato le udienze per le richieste di risarcimento ad aprile e ha affermato che intende emettere una decisione entro agosto 2025. Google ha promesso di presentare ricorso contro la decisione fino alla Corte Suprea, il che potrebbe richiedere anni in più. Nella documentazione depositata in tribunale martedì, il Dipartimento ha individuato quattro aree che il suo quadro di misure correttive per Google doveva affrontare: distribuzione della ricerca e condivisione dei ricavi; generazione e visualizzazione dei risultati di ricerca; scala e monetizzazione della pubblicità; raccolta e utilizzo dei dati.
Oltre ai potenziali spin-off, i procuratori hanno affermato che i rimedi potrebbero includere il divieto dei contratti esclusivi al centro del caso, in particolare i 20 miliardi di dollari che Google paga annualmente ad Apple per essere il motore di ricerca predefinito di Safari, nonché l’imposizione di misure di “non discriminazione” sui prodotti Google come il suo sistema operativo Android e l’app store Play.
IL PRECEDENTE DI MICROSOFT. Il Dipartimento di Giustizia ha però già fallito un tentativo. Nel 1998 Microsoft venne accusata di violare lo Sherman Act del 1890, proprio come sta facendo Google. La società era accusata di comportarsi da monopolista nel mercato dei browser, rendendo come opzione predefinita il suo Internet Explorer sul suo sistema operativo Windows, a scapito dei concorrenti di allora come Netscape, Navigator e Opera. Durante il processo era stato dimostrato che se un utente provava a disinstallare Explorer, rallentava l’intero sistema operativo. Explorer era dunque una parte integrante del software, mentre installare un altro browser prevedeva un lungo e complesso processo. Alla sentenza seguì la richiesta di dividere in due società distinte: la parte che si occupava di Windows e l’altra di Explorer. Il risultato fu un compromesso, arrivato dopo il processo che non ha cambiato nulla.