L’Italia conquista un altro record negativo: è maglia nera in Europa per i giovani tra i 15 e 29 anni, i Neet, che non studiano, non lavorano e non sono neanche impegnati in corsi di formazione. Per Lucia Valente, docente di Diritto del lavoro alla Sapienza, occorre che la politica affronti e risolva due problemi: il salario minimo e il contratto collettivo.
I dati sui Neet sono stati raccolti l’anno scorso da Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Unione europea, e confermano una tendenza diventata ormai quasi storica per il nostro Paese: i Neet italiani sono infatti il 17, 7 per cento, un tasso che per quanto riguarda gli uomini la pone all’ultimo posto tra i ventisette Paesi dell’Unione, dove primeggia invece l’Olanda. Per le donne, il tasso Ue è del 20,5%, secondo dopo il 25,4% della Romania. In totale gli italiani che non studiano e non lavorano sono il 19%.
Le statistiche ci confermano ciò che gli economisti e i sociologi affermano da tempo: sul lavoro la politica italiana procede in ordine sparso senza un’idea forte per affrontare il problema degli esclusi e dei marginalizzati. (Foto da www.lavocedinewyork.com)
“Il primo passo andrebbe fatto sul terreno delle riforme costituzionali, ma bisogna avere il coraggio di fare scelte chiare” scrive su lavoce.info, Lucia Valente, docente di diritto del lavoro alla Sapienza di Roma, dal 2013 al 2018 è Assessore della giunta regionale del Lazio.
Ecco riproporsi quindi i due temi da sciogliere: il salario minimo e il problema del contratto collettivo. “Tutti sono d’accordo nel ritenere opportuna una riforma del sistema salariale italiano, ormai incapace di garantire ai più deboli un’esistenza “libera e dignitosa” come dice l’articolo 36 della Costituzione – spiega la docente – L’organizzazione del lavoro sta subendo modifiche epocali che richiedono idee chiare su come neutralizzarne l’impatto sui più deboli, come i lavoratori a bassa qualifica o i disoccupati.
Ma anche i lavoratori mediamente qualificati e i pensionati non se la passano bene a causa dell’alta inflazione e delle sfide dell’evoluzione tecnologica. Misure come il reddito d’inclusione o le riforme affrettate e parziali, come quella sui contratti a termine o sui voucher varate il 1° maggio, non sono adeguate all’entità della trasformazione del lavoro in atto.
Che fare? Per prima cosa occorre promuovere, con una legislazione di sostegno, la contrattazione collettiva nazionale, territoriale e aziendale. Il legislatore è troppo lento nel dare risposte concrete alle esigenze di lavoratori e imprese; la contrattazione, invece, è più vicina ai mercati del lavoro e al tessuto produttivo, più capace di interpretare ciò che accade giorno per giorno e i bisogni che ne derivano.
Quote sempre maggiori di regolazione del lavoro sono incompatibili con i tempi parlamentari. Tuttavia, per promuovere e incentivare la contrattazione collettiva, bisogna certificare il peso di ogni associazione sindacale e imprenditoriale e dare certezza all’estensione, soggettiva e oggettiva, dell’efficacia del contratto collettivo.