sabato 22 Febbraio 2025

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

LUCIO, UN MIRAGGIO

di Monica Straniero

NEW YORK. Se c’era qualcuno capace di dare una svolta a Sanremo, ormai intrappolato in un’uniformità sartoriale e sonora sempre più soffocante, quello era Lucio Corsi. Ma non ha vinto. La storia sanremese insegna che il destino dei secondi è spesso più longevo e incisivo di quello dei vincitori. Se il primo posto si consuma nell’immediatezza del trionfo, il secondo vive nel tempo, sospeso tra il rimpianto e la gloria postuma.

Sarebbe stata un’anomalia troppo grande, uno squarcio troppo netto nel velo di prevedibilità che avvolge il festival. Il suo stile, un crocevia tra il teatro visionario del glam rock e l’intimismo cantautorale, non è un semplice artificio estetico, ma una dichiarazione d’intenti. In un’edizione dominata da costruzioni pop levigate e melodie addomesticate, Corsi è apparso come un miraggio, un riflesso di qualcosa che non pensavamo più di poter vedere.

Un momento simbolico di questa sua alterità è stata nella serata delle cover l’esibizione con Topo Gigio, un gesto a metà tra il teatro dell’assurdo e l’ironia consapevole, che ha smontato il peso iconico della canzone di Modugno per trasformarlo in un gioco visionario. Non si tratta solo del suo modo di stare in scena, naturale e al tempo stesso estraneo a ogni canone, ma di un’idea di musica che non chiede il permesso di esistere.

Sanremo da anni ha imparato a metabolizzare tutto, a inglobare e smussare, a trasformare il dissenso in un codice estetico digeribile. Se Lucio Corsi è stato scelto tra i cantanti in gara, è perché il festival sa che un tocco d’irregolarità è necessario per far sembrare la tradizione meno monolitica. Il cambiamento esiste, ma solo entro i confini di un sistema che non rischia mai davvero.

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