Al sentire il direttore della Stampa che si dice “inquieto e preoccupato” per l’incontro a Palazzo Chigi tra Giorgia Meloni ed Elon Musk, qualcuno ha sorriso rimproverando a Massimo Giannini un inutile allarmismo, frutto di pregiudizi. E’ stato solo un incontro di routine o vuol dirci altro? Ha ragione il giornalista?
Pacifico che la premier possa e voglia incontrare chiunque sia in grado di contribuire a relazioni internazionali che diano frutti al nostro Paese. Ma la preoccupazione di Giannini sulla venuta a Roma del multimiliardario di origine sudafricano comunque la si voglia far apparire non può essere ridotta solo a un normale scambio di opinioni.
C’è un qualcosa che sembra essere sfuggito anche ai più acuti osservatori, ma che da tempo, a mio avviso, è nella testa non solo di Giannini, ma di vari commentatori politici negli Usa, di esperti di tecnologie e finanche di chi scrive.
Musk ha posto alla Meloni il tema della deregulation dell’Europa in alcuni settori, ma ha discusso anche di denatalità e dei rischi dell’intelligenza artificiale, proprio nel giorno in cui l’Europa ha approvato uno stringente regolamento dell’AI. Questa l’ufficialità.
Ma che Musk dica che per combattere la denatalità (“l’Italia rischia di scomparire” avrebbe affermato di recente) bisogna fare più figli e introdurre forti sgravi fiscali per le famiglie ci sembra un tantino ovvio e riduttivo. O del tutto banale e deludente se a dirlo è un personaggio che viene definito visionario e che tra le tante attività multimiliardarie vanta anche quelle di trasformare lo spazio in un immenso mercato alla portata di chi può pagare e di essere il primo grande attore degli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale.
L’incontro con la Meloni, invece, ha avuto una natura schiettamente politica, in vista dei due grandi eventi del 2024: le elezioni europee – dove conservatori e populisti tenteranno di sconfiggere l’attuale blocco della maggioranza Ursula – e le presidenziali americane dove i repubblicani daranno battaglia a Biden con Trump, se non sarà del tutto azzoppato dall’inchiesta in Florida, o con Ron De Santis, il governatore della Florida che ha annunciato la sua candidatura alle primarie del Gop proprio assieme a Musk.
Sia Elon Musk, sia la Meloni hanno l’interesse strategico a che si crei un asse repubblican-conservatore tra Usa e Europa, con la nostra premier indicata come probabile vincitrice delle europee e che quindi potrebbe orientare a un marcato atlatismo di destra non soltanto nella guerra ma anche negli affari e negli sviluppi delle nuove tecnologie.
Ecco perché, alla luce dell’attivismo di Musk, cui non è estranea l’imminente decisione di impiantare in Europa una grande fabbrica della Tesla che sta suscitando gli appetiti di vari Paesi, è lecito parlare di muskcrazia. Se il direttore della Stampa scrive che “l’idea del nuovo padrone dei social media è chiara: fare di Twitter la piazza digitale del Ventunesimo secolo” quindi indispensabile e utilissima, se ben orientata, per qualsiasi elezione, c’è da tener presente l’analisi che fa Domenico Giordano, spin doctor di Arcadia, della personalità e degli obbiettivi del tycoon, in special modo dopo l’acquisizione di Twitter.
Premesse le forti remore morali ed etiche sull’autorizzazione a Neuralink che Musk è riuscito a ottenere nel suo Paese per impiantare dispositivi digital e chip nel cervello di un essere umano affinché possa dialogare con i computer, è proprio l’operazione Twitter a farci capire qual è il fine di Musk e il suo riflesso sugli equilibri e le architetture che si vogliono creare. La curvatura imposta dal tycoon “sta infatti confinando i follower – ha scritto Giordano già dal dicembre scorso – in una voliera fatta di filo spinato, altro che agorà polifonica e plurale”.
La muskcrazia viene definita “una riduzione dell’ambiente digitale dove la dinamica dell’algoritmo non è più modellata, come negli anni pionieristici dei social network, dal confronto reticolare e libero”. L’algoritmo è svincolato del tutto dalla user experience, ovvero dalla relazione tra persone, prodotto e servizio, necessaria a soddisfare gli utenti, fidelizzarli e migliorare le vendite, ma solo dai capricci improvvisi di una sola persona. Ciò aggredisce e potrebbe far morire i diritti della democrazia digitale, della Rete e dei social.
Come si estrinseca l’azione politica, fortemente classista, di Musk? Restringendo il perimetro di agibilità democratica a Twitter e delegittimando qualsiasi altro territorio digitale. “In questa ottica – spiega Giordano – dev’essere letta e compresa anche la ratio dei social-sondaggi lanciati da Musk sulla riammissione sul suo social di Donald Trump e degli account bannati, o della sostanziale fine della moderazione per quei contenuti che riguardano le notizie sul Covid”.
Twitter inoltre sta diventando fortemente gerarchica. Sono, di volta in volta, il capriccio, lo sfizio e la libidine del capo a dettare le regole di ingaggio, a discapito, della natura libertaria che ha fatto fino a oggi la fortuna di tutti i social network.
Esempio: la foto postata una mattina, “my bedside table” (il mio comodino) dove si vedono lattine di diet coke (senza zucchero e calorie) e due pistole, è la riprova che è solo e soltanto il proprietario della piattaforma con i suoi 120 milioni di follower a decidere a suo piacimento le direzioni delle polarizzazioni. L’agenda coincide con quella personale del padrone di Twitter, altro non è ammesso, altro non è possibile.
Altro carattere identitario che emerge dopo appena un mese di cura Musk, è la segregazione sociale dei follower, una rigida separazione di classe per tenere lontano i follower di serie A, le élite digitali, da quelli invece che popolano l’anonimato e che non sono neppure degni dell’attenzione del capo.
Da quando Musk ha completato l’acquisizione della società al mese successivo l’account @ElonMusk ha pubblicato 1.023 contenuti generando oltre 140 milioni di interazioni e con 9,6 milioni di nuovi follower. Eppure Musk si è concesso solo alle discussioni che partivano da account verificati e che potevano dare ulteriore viralità alla sua strategia, tra i quali Stephen King, Dan Rather o Alexandria Ocasio-Cortez, ignorando tutti gli altri.
La muskcrazia è un chiaro “strumento di potere politico”, nel momento in cui attribuisce dei diritti solo a coloro che hanno accettato precisi doveri: primo fra tutto che alcune facoltà siano necessariamente a pagamento. Come quella di conservare o ottenere la spunta blu.
Nel costo di otto dollari al mese fissato da Musk, non solo c’è una evidente barriera sociale e di classe tra chi può e vuol pagare e chi, al contrario, non è nelle condizioni di farlo, ma c’è tragicamente un’involuzione democratica perché si stabilisce il principio che l’autorevolezza, e di conseguenza la libertà, della parola a mezzo tweet debbano essere a pagamento e mai più concesse a tutti e gratuitamente.
In questa pericolosa curvatura, tuttora in atto, è possibile rintracciare un’ultima matrice identitaria rappresentata dall’alfabeto di riferimento. I tweet di Elon Musk sono quasi sempre costruiti sulla rottura delle convenzioni, intrisi di irriverenza, di locuzioni spicce, popolati di slang. Un linguaggio che rigetta le buone maniere, ogni forma di manierismo e tutta la grammatica dei ruoli.
Sono atteggiamenti a forte connotazione politica che potrebbero attecchire e aderire del tutto anche nella politica di Destra della nostra maggioranza di governo e di quella che sia Musk, sia la Meloni augurano all’Europa a partire dalla prossima primavera. L’incontro romano, al di là degli abbracci e dei sorrisi, potrebbe dirci questo: una Destra che varca l’oceano da ambedue le sponde. Il nuovo potere.
Piero Di Antonio