di Sara Di Antonio
Il compito di ogni genitore avvoltoio è quello di controllare quanto più possibile le mosse dei propri figli. E se questo significa accompagnarli al concerto di Sferaebbasta, quello che, per inciso, ha ucciso il rap, sarà suo dovere non sottrarsi a tale incombenza.
Il concerto inizia come tutti i concerti, con una fila. Ma, poiché come me, avete chiaramente più di quarant’anni, vi ricordo che non subivo più il procedere incerto di una fila da alcuni lustri, poiché a teatro le maschere sono molto solerti a passare il biglietto sotto lo scanner.
Mi consolo guardando un meraviglioso tramonto sul mare, e il sorriso di V., la quale alterna il pianto al riso e inizia ad avanzare.
In fila ci sono dei ragazzi di Campobasso, intonano tutti una tarantella di cui ricordo pure io le parole; poi incrocio lo sguardo di un altro genitore, sorrido esclamando “siamo qua”, tra il rassegnato e il compiaciuto. In un battito d’ali, sorvolo con lo sguardo se vi sia presenza di droga pesante, mentre di marijuana ahimè sentiamo già pesanti effluvi, o di qualche ubriaco molesto.
L’età media è bassa, ma potrebbero tutti, persino quelli più baldanzosi e a petto nudo, essere miei figli. Avrei tollerato che girassero così, senza maglietta, al posto delle loro madri? Scuoto la testa, poi guardo i bordi sfrangiati dei pantaloncini delle mie figlie, le mie gambe non sono così scoperte neppure con l’anticiclone.
Qualche domanda discreta di G. sui miei trascorsi, e rammento gloriosamente i Litfiba, loro si guardano incerte, e mentre riaffiora lo choc acustico che ha fatto annullare il tour di quest’estate a Pelù, ammetto l’incomunicabilità della cosa. I cancelli si aprono, ci riversiamo sulla sabbia appena rinfrescata dal tramonto, come genitore avvoltoio ho comunque i sandali, e mi sento dunque superiore ai ragazzi che annaspano con le loro sneakers tutte uguali, indossate con i calzini certamente poco puliti.
Una biondina si butta per terra, è già esausta o ha solo voglia di scherzare, c’è chi fuma, beve birra, sceglie silenzioso il proprio posto sapendo che il palco sarà presto totalmente coperto dai telefoni.
Lo show ha inizio, l’ipocrisia come tante di chi è partito da zero, ma oggi è una macchina da spettacolo, con ritmi, emozioni, perfino un corpo di ballo perfettamente dosati. Sono tra i pochi a non cantare, mi sento come un bodyguard silenzioso che ogni tanto assaggia un vento piacevole di mare e un po’ di blu di cielo. Qui si parla di macchine, notti, piogge e di chi ce l’ha fatta, lui.
Io resto piccolina, ricordo Pelù, i suoi discorsi contro la leva obbligatoria, Guccini e l’avvelenata, Vasco Rossi con gli spari sopra e gli inizi di tangentopoli, poi la fine. Era ancora questo mondo, questa Italia?
I pensieri evaporano come le sigarette elettroniche accanto a me; spero che non si illudano, questi bambocci nudi e sudaticci, che le loro nuove paglie non facciano male, molto meno delle mie vecchie Gauloises rosse; e li osservo mentre inspiro, e poi respiro, aggrappandomi alla fetta di luna che, con me, è ormai l’unica a non cantare.