mercoledì 27 Novembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

AZIENDE DI STATO / Quel molto poco che resta da privatizzare

Tornano di moda le privatizzazioni. Ma la lista delle imprese ancora in mano pubblica che si potrebbero cedere a privati senza ripercussioni è breve. Dalla loro vendita sarebbe comunque difficile ottenere quell’1 per cento del Pil di cui si parla. Il professor Carlo Scarpa esamina su Lavoce.info il ventaglio di ipotesi sulle cessioni  con il titolo “Quel che resta da privatizzare”

di Carlo Scarpa *

— Uno sguardo al passato. Ogni tanto un governo, disperato nel far tornare i conti, iscrive a bilancio i proventi delle privatizzazioni. Oggi si parla dell’1 per cento del Pil (che sarebbero almeno 18 miliardi). Fantascienza?

In realtà, in questo campo la storia italiana è fatta di privatizzazioni annunciate, ma mai effettuate, di privatizzazioni marginali, oppure parziali, oppure solo temporanee. Abbiamo ragione di pensare che stavolta sarà diversa?

In Italia la stagione delle privatizzazioni ha avuto un picco a partire dagli anni Novanta e a cavallo dell’inizio del secolo, con la vendita delle grandi banche di stato (quali Credit e Comit, per chi le ricorda) e le grandi holding di stato, Iri ed Efim in primo luogo, che qualcuno chiamava “carrozzoni” perché erano dei contenitori per imprese molto diverse tra loro, senza alcun legame le une con le altre.

Queste imprese erano state acquisite al patrimonio statale con una logica del tutto finanziaria, nella speranza che prendere un’impresa decotta e metterci denaro fresco sarebbe stato sufficiente a risollevarla. Purtroppo, sostituire denaro privato con denaro pubblico non ha normalmente dato buoni risultati in assenza di piani industriali e capacità manageriali serie, e comunque lo stato si è trovato a gestire molte imprese senza una vocazione pubblica discernibile.

Accanto a queste, la cui vendita non ha invero creato grandi dibattiti, si vendettero quote di grandi aziende che invece tanto male non andavano, e che comunque sono rimaste in realtà nel controllo pubblico. Penso alle grandi imprese del settore energetico (Enel, Terna, Eni, Italgas), per le quali la cosiddetta privatizzazione è stata parziale, con lo stato che ha mantenuto il controllo attraverso la Cassa depositi e prestiti, una istituzione ibrida, che dice di essere privata quando le serve, ma che è pur sempre controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze.

Poi, ci sono state le privatizzazioni vere, ma non certo irreversibili, di alcune grandi imprese a rete quali Telecom Italia e la Società autostrade. Cessione del 100 per cento, fuoriuscita del capitale pubblico, che poi è rientrato “pian piano” – come in Tim – oppure attraverso operazioni che possiamo definire “drastiche” – come nel caso di Autostrade per l’Italia. La storia dell’ultima grande banca pubblica, il Monte dei Paschi, è poi stata segnata da una sostanziale privatizzazione e il ritorno in mani pubbliche per evitare il dissesto. Anche qui, dal pubblico al privato, e ritorno.

Cosa abbiamo da vendere? A prescindere dal fatto che privatizzare sia bene o male – e la risposta è comunque complessa – giova richiamare una cosa ovvia: che la privatizzazione non può che partire dalle imprese che ancora sono in mano pubblica. Altri governi hanno liberato lo stato da imprese che francamente non si comprendeva perché impegnassero risorse pubbliche, ora però la lista di quelle pubbliche che potrebbero essere “tranquillamente” trasferite in mano privata è sostanziosa, ma non è poi tanto lunga.

Nelle imprese energetiche il modello misto che ormai si è affermato, con un 30 per cento circa in mano pubblica e il resto a mercato, ha garantito per diversi anni un equilibrio tra interessi pubblici e perseguimento del profitto. Un profitto che piace molto alle casse pubbliche e che consente di trovare finanziamenti a basso costo per gli ingenti investimenti che sono necessari. Si tratta di un equilibrio che tutto sommato funziona, e che dubito si voglia toccare.

Abbiamo poi diversi quasi-monopoli in settori a rete, quali Poste e Ferrovie. Venderne il 100 per cento incontrerebbe sicuramente problemi piuttosto importanti, dato che in questi settori la concorrenza è difficile e poco sviluppata, e la regolazione ha fatto abbondantemente leva sulla natura pubblica dei soggetti regolati.

Ci sono poi le imprese in settori politicamente molto sensibili. Qualcuna nel settore della difesa (Leonardo), il cui passaggio in mani private appare poco realistico soprattutto in tempo di guerra. Ma qualcosa di simile vale per Fincantieri, che opera in un settore tremendamente politicizzato, come ha mostrato il suo tentativo di acquisire Stx in Francia, ancora di più ora che “navi” significa spesso “navi da guerra”.

E per Stmicroelectronics, presente nei semiconduttori per i quali la situazione geopolitica consiglia grande prudenza. Per non parlare di Autostrade per l’Italia, appena riacquistata e candidata improbabile alla immediata rivendita.

Insomma, tante ragioni – discutibili ma non certo prive di sostanza – potrebbero frapporsi alla loro cessione. Soprattutto se si considera che il Dna di questo governo non è certo di grande orientamento al mercato, ma è ispirato a un “sovranismo” che, qualunque cosa possa significare, fa pensare più al controllo statale che alla cessione del potere diretto di intervento.

Quali prospettive? In realtà, nell’agenda di qualunque governo la cessione di Monte dei Paschi (nella foto, la sede centrale di Piazza Salimbeni a Siena) e Ita (la ex Alitalia) sarebbe non solo presente, ma già programmata. Quella di Ita è già confezionata, con il piccolo ostacolo della Commissione europea che non capisce perché da un lato bastoniamo Ryanair per i suoi prezzi e dall’altro restringiamo la concorrenza con Lufthansa vendendole Ita e formando – in molte rotte – qualcosa di simile a un monopolio. Ma fatico a pensare che l’operazione possa essere bloccata da Bruxelles, e – se ho ragione –l’attuale governo potrà intestarsela. Il fatto che la questione avrebbe potuto essere chiusa 16 anni fa con la vendita di Alitalia a Air France è ormai un dettaglio.

Il tema di Monte Paschi è da tempo sul tavolo del governo. Fu salvata anni fa con i “Monti bond” e ora il problema è quando venderla e a che prezzo, ma il desiderio di avere una banca pubblica sembra ormai confinato a pochi. Per fortuna, anche perché le residue ragioni per una presenza pubblica nel settore appaiono davvero poco nobili.

Resta poi sul tavolo l’ipotesi di cedere quote di Poste e forse delle Ferrovie, mantenendo però il controllo con almeno il 30 per cento delle azioni. Quella di Ferrovie sembra un’operazione molto complessa, che aprirebbe il dibattito su cosa vendere (la holding? la rete? Trenitalia, che gestisce il trasporto?). Non mi pare ci sia sufficiente visione politica per gestire un progetto del genere. La vendita di un certo numero di azioni di Poste Italiane, ove Cassa e ministero hanno il 65 per cento, sarebbe invece una mera operazione finanziaria per una società comunque già quotata in borsa.

E io incasso… Quanto potremmo incassare per tutto questo? Su Ita, ben poco. A quanto si sa, Lufthansa entra con un aumento di capitale, così che il suo esborso resta nelle casse dell’azienda, non in quelle del ministero. Se poi acquisterà il rimanente 60 per cento, e come lo farà, lo vedremo nei prossimi anni. Monte Paschi oggi capitalizza 3 miliardi di euro, di cui il 64 per cento del ministero dell’Economia. Farebbero 1,8 miliardi. Rapportare questa cifra a quanto lo stato ha iniettato nella banca è complesso – solo nel 2017 ha speso oltre 5 miliardi, ma occorrerebbe conteggiare anche le ricapitalizzazioni precedenti e successive e le stime che si leggono sono da capogiro – e forse non utile al momento.

È chiaro che oggi si recupererebbe una frazione delle cifre spese e il ministero non ha alcuna fretta di farlo. Molto più interessanti i valori di Poste Italiane, che oggi in Borsa vale 13 miliardi: se il ministero cedesse il proprio 29,3 per cento potrebbe continuare a controllare l’azienda tramite la Cassa.

È chiaro che passare dalle cifre teoriche a quelle effettive non è facile. Forse su Poste si dovrebbe accettare un piccolo sconto, e forse – se lo stato davvero ne uscisse – Monte Paschi potrebbe essere invece venduto per qualcosa di più del valore di borsa. Ma è chiaro che per arrivare alle cifre ipotizzate (1 per cento del Pil, a quanto si legge) occorrerebbe ben altro. Ferrovie? Non facile, ma anche le altre strade sembrano impervie. A meno che non si venda parte della stessa Cassa depositi e prestiti – ma chi la prenderebbe per rimanere comunque azionista di minoranza in un veicolo di operazioni di elevata valenza politica?

Dubito che ci aspetti un’altra stagione di privatizzazioni. E dubito che iscriverle a bilancio servirà a convincere i mercati.

* Carlo Scarpa è professore ordinario di Economia Politica all’Università di Brescia. Ha insegnato e svolto attività di ricerca nelle Università di Oxford, Bologna, Cambridge, Evry, York, la Johns Hopkins University,  Bocconi, il Boston College, la London Business School e l’Ecole Normale Superieure di Parigi. Si occupa di problemi di economia e politica industriale, con particolare riferimento a temi di antitrust e alla regolazione di servizi di pubblica utilità, soprattutto nei settori dell’energia e dei trasporti. Da maggio 2015 è Presidente di Brescia Mobilità, società del Comune di Brescia per il trasporto pubblico locale.

Articoli correlati

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

CATEGORIE ARTICOLI

Articoli recenti