mercoledì 23 Ottobre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

VAJONT / La coscienza sporca

Qual è la reazione più comune quando l’Italia viene investita da disastri naturali, beninteso, non solo naturali? Limitiamoci per ora a prendere in considerazione i fenomeni naturali per i quali il contrasto dell’uomo e delle istituzioni non è all’altezza della situazione.

La reazione più semplice, quasi un automatismo, è accantonare la ricerca in profondità delle vere cause, e di mettere subito sul banco delle responsabilità a volte la natura maligna, a volte la fatalità, o molto più spesso la giustificazione automatica: “Come potevamo prevedere una tragedia di tali proporzioni?”

Con l’alluvione della Romagna, un esempio che ancora brucia sulla pelle di tanti, abbiamo sentito e letto di un’emergenza climatica che ormai devasta interi territori portando con sé morte e distruzione. Una furbizia molto italiana, assolutoria a ben rifletterci: dici, ripeti e imponi la parola clima, fenomeno vastissimo e dalle innumerevoli implicazioni, e così ti avvantaggi nel non mettere in primo piano specifiche ed evidenti responsabilità umane.

Non dicono nulla le case costruite vicino agli alvei dei fiumi? e i Comuni senza un decente piano regolatore? e i lavori di manutenzione mai eseguiti? o inesistenti misure di alleggerimento della pressione che la natura stessa esercita da secoli sull’ambiente? E dove mettiamo la sciatteria, la disorganizzazione, il mancato o il flessibile rispetto delle leggi e delle regole?

Tali indecenze vengono coperte – complice un sistema d’informazione sempre più debole e talvolta asservito a molteplici e sostanziosi interessi – da parole che andrebbero accompagnate invece da precisi significati e non con la generica  fatalità contro cui noi umani poco possiamo opporre. Dire “è colpa del clima” è come sostenere “è la natura che vuole colpirci”. E l’uomo, dove lo mettiamo? Siamo forse in balia, impotenti, soltanto dei suoi capricci? Oppure ci sono di mezzo l’avidità, la malafede, l’approssimazione?

I recenti bradisismi dei Campi Flegrei hanno aperto il dibattito su cosa potrebbe provocare un’eruzione del vulcano. E’ un preoccupato e allarmistico dibattito che risale a pochi giorni fa, con un Vesuvio, invece, che sta lì da secoli. Come se non si sapesse, da Pompei in poi, che prima o poi qualcosa di nefasto e devastante potrebbe esplodere.

Nel frattempo centinaia di case abusive sono state costruite proprio lì, sulle pendici e vicino alla bocca del Vesuvio. Ci sarà un piano di evacuazione, dice il governo, e relativo sfollamento di migliaia di persone in altre zone d’Italia. Ma perché se sono consapevole di una cosa con anticipo di secoli devo ridurmi a proteggere la popolazione all’ultimo minuto?

Questi esempi, l’alluvione e i Campi Flegrei, sono l’ideale introduzione a ciò che da decenni costituisce la coscienza sporca del nostro Paese. Il riferimento è al Vajont e a quella immane tragedia che sconvolse Longarone, Casso, Erto. Quasi duemila morti che a distanza di 60 anni pesano parecchio, e non solo nell’animo dei sopravvissuti.

Le vittime della frana del Monte Toc non sono state donne, bambini. ragazzi e uomini uccisi dalla grande ondata. Una grande vittima è stata anche la verità. Nessuno stamani ricorda con il dovuto risalto Tina Merlin e la sua coraggiosa denuncia di quel che stava accadendo intorno alla costruzione della più grande diga del mondo. I segni premonitori c’erano tutti, suffragati dai pareri dei geologi non al servizio della Sade.

Niente da dire oggi sulla sistematica denigrazione di una giornalista che documentava, con i fatti, i pericoli di una frana della montagna che si sarebbe potuta abbattere sul bacino idroelettrico? E come mai nessun accenno a ciò che la sistematica azione di delegittimazione, con denuncia penale incorporata, significava?

La delegittimarono dandole della “comunista”. Bastava la parola, in certi ambienti dell’industria e della politica, per gettare nel cestino il giornale per il quale la Merlin (nella foto) scriveva. Intanto i lavori della diga andavano avanti. L’obiettivo della Sade erano i miliardi che lo Stato italiano, incurante delle denunce pubbliche, delle preoccupazioni della popolazione e degli allarmi dei geologi, avrebbe sborsato loro.

I democristiani e i padroni del tempo guardavano e attaccavano il ragionatore , non il ragionamento. Il pregiudizio che portava con sè la parola comunista era sufficiente a nascondere e mascherare i pericoli cui andavano incontro interi paesi. Fino alla distruzione e alla morte.

Un pregiudizio che resistette anche dopo, anche a tragedia avvenuta. I cantori di quello che viene considerato (a torto) un campione del giornalismo, tale Montanelli, fingono di non ricordare, a mio avviso il tutto è stato rimosso, l’epiteto di “sciacalla” che il venerato Indro (sic) affibbiò alla Merlin. Dopo aver chiesto scusa per il suo passato fascista, per la negazione dell’uso di gas chimici in Etiopia nella guerra coloniale, del matrimonio con una tredicenne infibulata, Montanelli dovette porgere vent’anni dopo le scuse alla giornalista Tina Merlin.

Spalleggiato da Giorgio Bocca e da Dino Buzzati, l’Indro nazionale darà le scuse alla giornalista dell’Unità che aveva denunciato le colpe umane nel disastro del Vajont (9 ottobre 1963), nel 1997 e nel 1998, dalla sua Stanza sul Corriere della Sera, confessando due colpe gravi: di essere arrivato sul posto senza sapere niente della diga e di aver preso una posizione totalmente ideologica (un pregiudizio, quindi?, ndr) a favore dell’azienda responsabile, la Sade, soltanto perché contrario alla nazionalizzazione dell’energia elettrica.

Quel pregiudizio resiste, viste certe dimenticanze nel riandare a quei tragici avvenimenti. Perché? Perché quel mondo di affaristi, manager, illustri cattedratici conniventi con l’industria, di voltagabbana, di tengo famiglia e del “devo badare alla carriera”, di gente avida e senza scrupoli è ancora in azione. Vispa più che mai. Non tollera, allora come oggi, che qualcuno si possa intromettere nelle strategie del potere, del “profitto a tutti i costi e prima di tutto”. La verità conta poco.

Perché questo mondo di azionisti e imprenditori, oggi come allora, ha a disposizione il meglio dei canali  dell’informazione, sempre pronta alla bisogna a correre in loro soccorso. Anche disposti a insultare e denigrare una giornalista che aveva avuto il solo torto di denunciare all’Italia (e alla sua gente) ciò che tutti vedevano, sapevano e temevano, con articoli che con largo anticipo descrivevano uno scenario drammatico. Per rendere vane le coraggiose denunce della Merlin e salvare il malloppo fu gioco facile e sufficiente, sessant’anni fa, sibilare e poi mettere nero su bianco una sola parola: sciacalla. E oggi? E’ più facile, basta il silenzio.

Piero Di Antonio

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