di Sara Di Antonio
— Gli animali nascono, e muoiono, e poi attraversano con noi solo dei pezzetti di vita, poiché lo sappiamo dall’inizio che sono ancora più corti ed effimeri di noi.
Però ci ricordiamo di quando li abbiamo avuti tra le mani la prima volta, l’impressione che ci hanno fatto (o abbiamo fatto loro?) e quelle due o tre occasioni, forse anche più, in cui sono stati dei silenziosi aruspici dei nostri destini.
Ma ora non ricordiamo affatto, erano i miei trent’anni, e volevo un siamese, e poi furono i miei quaranta: altra storia.
Si addormentano in silenzio, noi li salutiamo come dei compagni stanchi, non del tutto efficienti, distratti (potevamo fare di più? Quanti sono sette anni per un gatto? Per un cane? E quanto olio di cannabis serve per non sentire il dolore?).
Il 2023 ha portato via degli animali, ma anche delle persone, ed è ben peggio; ma in definitiva ci ha sottratto, come con una folata fredda, quello che credevamo di sapere sulla vita.
Ora mi giro lenta verso il cesto in cui c’era la gatta muta, la statuina egizia che non conosceva la paura, quella che se ne è andata tra le sue piaghe e i suoi silenzi larghi.
Ci spiegheranno tante di quelle cose, un giorno, ci diranno del dolore e della perdita; e noi confermeremo a tutti che, come scriveva Aristotele, anche i nostri poveri animali possiedono una specie di soffio, legato appunto all’anima, che li rende altrettanto degni di questa ruvida, ispida, scomoda vita.