Indagine della Northwestern University. Cambiamento culturale. Trasformazioni in siti, mentre le sedi sono oggetto di speculazione immobiliare. Michele Mezza su professionereporter.eu analizza questa tendenza che sta arrivando in Europa e che chiede ai giornalisti e al sistema dell’informazione di combattere per la condivisione dei passaggi tecnologici.
di Michele Mezza*
— Piccolo è davvero brutto in America, almeno per quanto riguarda l’editoria.
Secondo uno studio della Northwestern University, ripreso dal New York Times, in meno di vent’anni sono sparite dal mercato circa 3000 testate locali. Un buco nero che documenta con una terribile efficacia come sia radicalmente mutata la catena del valore del giornalismo statunitense.
Infatti , sempre in base alla ricerca dell’università americana, fino ad almeno 15 anni fa ancora l’85 % dell’intero flusso di informazioni che poi arrivava alla grande stampa nazionale proveniva proprio dal fitto reticolo di giornali territoriali.
Ora la falcidia di questa realtà, con il secco ridimensionamento delle redazioni periferiche, ci dice come sia stata ristrutturata profondamente la fabbrica delle news che sostiene poi le grandi testate globali degli Usa. Una fabbrica ormai non più poggiata sulla piramide professionale che dalle lande più estreme del grande paese saliva fino alle leggendarie redazioni che informano il mondo.
Il motore di questa essenziale funzione oggi è costituito dallo sciame formicolante della rete e da un intreccio fra relazioni e conversazioni che producono il nuovo fiume di notizie dove pescano i professionisti.
Ma lo tsunami che abbiamo descritto con i dati della decimazione consumatasi in questi anni ci parla anche di un cambio culturale e antropologico.
Chiunque abbia avuto anche la minima esperienza di vita americana, sa quanto era elemento fondante della società civile, nella variegata ed estesa provincia di quel paese, il tessuto dei giornali locali. Questi costituivano l’indispensabile riequilibrio di poteri e di funzioni che dalla singola abitazione attraverso villaggi e contee si articola fino alle metropoli guida. Lungo tutta questa scala il giornale, e con esso i giornalisti, sono stati per due secoli la controparte naturale dei potentati economici e politici che tendevano a totalizzare la vita di ogni comunità.
DUE TERZI PERDUTI
Il fenomeno della trasformazione sembra ancora più profondo dei dati sulla scomparsa delle testate. Infatti si stima che dei giornali che ancora rimangono attivi almeno la metà siano in un avanzato processo di automatizzazione grazie ai nuovi sistemi di intelligenza artificiale che riducono drasticamente l’uso dei giornalisti.
Infatti si calcola che dal 2005 il più avanzato paese del pianeta abbia perso almeno i due terzi della forza lavoro giornalistica. Una specie di buco dell’ozono professionale che ingoia un’intera categoria solo qualche lustro fa considerata l’avanguardia della modernizzazione.
Se diamo uno sguardo alle grandi catene editoriali, che hanno fatto la storia dell’industria giornalistica, come ad esempio il gruppo Gannet, proprietario di USA Today insieme ad altre 260 quotidiani e più di 300 settimanali, o ancora l’Alden Group, che controlla testate quali il Chicago Tribune o il Boston Herald, vediamo come rapidamente queste concentrazioni gigantesche si dimezzino in poco tempo, eliminando soprattutto il personale editoriale di scrittura e di ricerca. Le fonti di guadagno di questi gruppi stanno ormai coincidendo con le dismissioni immobiliari delle sedi dei giornali, che producono il residuo flusso di capitali per procedere alla ristrutturazione tecnologica.
SCUOLE E GUIDE
In sostanza si svuotano le testate, automatizzando i processi e trasformando di fatto i giornali in siti web o navigatori mobile per vendere servizi territoriali, dalla circolazione alla vendita on line di prodotti e servizi, di cui le news sono sempre più commodities. Ma il dato che ci permette di focalizzare questo fenomeno non come una semplice azione di compressione dei costi di produzione, tipica di ogni speculazione imprenditoriale, è il fatto che queste strategie recessive sono la conseguenza e non la causa, di una trasformazione del meccanismo stesso di ricerca e selezione delle informazioni che non è più esclusiva di professionisti, i giornalisti, ma l’indotto di un’ampia attività relazione e comunicativa di ogni singolo cittadino di quei territori.
E’ questo il vero salto socio-culturale che -come spiegava già Jill Abramson nel suo saggio “Mercanti di Verità” (Sellerio), del tutto snobbato nel nostro Paese- riclassifica le forme e i linguaggi del giornalismo, ridefinendo drasticamente i profili e le culture dei professionisti. Anche i grandi sistemi come il New York Times o il Washington Post, ricordava la Abramson, si appoggiano per far quadrare i conti ad attività esterne all’informazione, come le scuole di recupero degli anni scolastici, o le guide turistiche. Questo porta ad un’intolleranza, diciamo così, dei vertici manageriali per ogni appesantimento dei costi di produzione che vengono tagliati non sostituendo i pensionamenti o integrando la redazione con capacità tecnologiche che rendono la testata sempre più una piattaforma di servizi.
CENTRI DI CONSULENZA
Gli effetti di questa tendenza ci mostrano, nel panorama americano, come i giornali vengano sostituiti da comunità no profit, tipo ProPubblica, che assicurano quell’indispensabile flusso di visioni critiche che bonifica l’espansione dei poteri economici e politici. Oppure si affermano brand come Politico.com, veri e propri centri di consulenza individuale, che distribuiscono servizi altamente personalizzati alla cui reputazione concorre anche l’attività di informazione generalista.
Ma il saldo fra i due modelli è fortemente negativo per l’occupazione e la rilevanza dei profili giornalistici. In Europa siamo alla viglia di una forte spallata che tenderà inevitabilmente ad equiparare il mercato editoriale del vecchio continente a quello dell’altra sponda dell’atlantico. Noi abbiamo ancora un forte residuo di organizzazione e cultura sindacale. Come investirlo in questo gorgo?
I sistemi di Intelligenza artificiale ci possono suggerire una via. Oggi persino i grandi imperi tecnologici come Microsoft, OpenAI o Google sono alle prese con meccanismi di produzione e addestramento dei dispositivi intelligenti complessi e costosissimi. Si punta ad integrare, in una sorta di open source informale, gli utenti nella catena di produzione. Contemporaneamente già pullulano soluzioni e proposte strutturalmente basate sulla partecipazione diretta degli utilizzatori, che si dimostrano altamente efficaci e sicuramente più trasparenti e condivise.
RISCRIVERE IL CONTRATTO
Ora il giornalismo deve porsi il problema, dinanzi alla sfida che rischia di portarlo all’estinzione, di una reinvenzione del mestiere, che faccia i conti con l’entrata in campo proprio degli utenti come fabbrica diffusa e della tecnologia come spazio di una nuova stagione contrattuale. Dobbiamo ripensarci come artigiani, più che avere il rammarico dei professionisti delusi: non più titolari di aloni e conoscenze, ma abilitatori di un saper fare, di una pratica ed esperienza concreta.
Da subito bisogna riscrivere una nuova base di contratto che preveda una condivisione, fin dalla fase della ricerca e degli inventari delle necessità, dei processi di digitalizzazione. Ogni singolo passaggio deve essere condiviso e verificato proprio alla luce delle sue caratteristiche di accessibilità e soprattutto di riprogrammabilità. Le nuove norme europee, con il AI Act in gestazione, ma anche l’Ordine del presidente americano Biden, offrono più di uno spiraglio per vincolare ogni decisione tecnologia alla condivisione e consenso di ogni singolo utente.
Come recita un proverbio cinese, nei momenti delle incertezze e delle insidie bisogna avere lo sguardo della mosca, sfaccettato e poliedrico, e non quello fisso e furioso del toro.
* professionereporter.eu