Non dite a mia madre che faccio il giornalista, ditele che servo gli antipasti durante gli eventi. Parafrasando una citazione molto in voga tra i redattori (“non dite a mia madre che faccio il giornalista, ditele che suono il piano in un night club di New York”) si arriva a definire con questa frase e con la dovuta ironia, che sarebbe poi l’ultimo rifugio dei disperati, una realtà ormai preponderante in una professione un tempo affascinante, quella del giornalista.
Oggi la misura è colma. L’informazione italiana ha subito una tale involuzione da far sembrare il suo declino ormai irreversibile. Colpa di chi? Non giriamoci attorno, la responsabilità è di noi giornalisti che abbiamo lasciato correre, per distrazione colposa o per puro calcolo, atteggiamenti e invasiooni di campo che sapevamo sarebbero stati, alla prova dei fatti, letali per l’intera categoria.
Non abbiamo saputo contrastare l’avanzata di cinici imprenditori e mestieranti che a malapena sapevano cosa fosse un giornale. Gente, tendenzialmente arrogante, che correva in parallelo con il potere del momento se non diretta e sfacciata sua emanazione. Il caso Gedi-La Repubblica ne è l’esempio più lampante, con il colosso un tempo torinese entrato nella grande editoria solo per poter mascherare, dicono in molti, la vendita della Fiat ai francesi di Peugeot.
Oggi la crisi ci fa apparire il re nudo; le edicole, quando riescono a sopravvivere, si stanno trasformando in un triste cimitero di carta; i giovani e le future classi dirigenti si stanno allontanando progressivamente dalla professione per rifugiarsi in qualcosa di più umano se non hanno già alzato bandiera bianca.
L’immagine del declino sta in un preoccupante malcostume che imperversa ormai in parecchie redazioni. Articoli e servizi remunerati con cifre scandalose, parliamo in casi estremi di 4-5 euro lordi a pezzo, promesse di sistemazione che consentono di sfruttare per anni il lavoro di entusiasti collaboratori, sfacciati stipendi alle cosidette firme che arrecano prestigio solo nel mondo del potere., quasi raramente tra il pubblico dei lettori, pubblicità mascherata negli articoli, confondendo prodotto editoriale con marchettificio. Elenco lungo che costringe a chiederci se davvero questo andazzo non faccia precipitare i principali protagonisti nella depressione.
Ci dice molto sul giornalismo ormai precario un’indagine condotta da IrpiMedia, testata no profit di giornalismo investigativo, di cui riferisce il sito professione reporter.eu. La raccolta dei dati si è svolta da luglio a ottobre 2023, attraverso un questionario anonimo diffuso sulla piattaforma Google Forms. Hanno risposto 558 giornalisti da tutta Italia.
L’87% dei giornalisti precari afferma di soffrire di stress, il 73% di ansia, il 68% avverte un senso di inadeguatezza. Più della metà soffre di insonnia. Uno su due ha la sensazione di non essere compreso e prova un forte senso di solitudine. Cause principali di questi problemi, i compensi bassi e la precarietà lavorativa.
Il 42% afferma di soffrire di sindrome da burnout (esaurimento emotivo), di avere attacchi di rabbia immotivati e di essere dipendente da internet e dai social network. Uno su tre parla esplicitamente di “depressione”. Il 28% denuncia perdita di appetito o abuso di cibo, il 27% ha attacchi di panico e il 26% ha difficoltà a intraprendere e mantenere relazioni di coppia. Il 15% dice di aver subito disturbi da stress post traumatico. Solo il 2% dichiara di non aver mai sofferto di nessuna di queste situazioni.
Il 70 per cento di chi soffre di attacchi di panico sono donne. Il 68% di chi dichiara disturbi da trauma continuo sono donne. Il 65% di chi perde appetito, abusa di cibo ed è insonne sono donne. Gli uomini sono la maggioranza (54 per cento) solo tra chi dichiara di soffrire di disturbi da stress post traumatico e di avere difficoltà nelle relazioni di coppia. Gli uomini rappresentano anche l’83% di chi afferma di non aver mai sofferto alcun problema.
Ma parecchio significative sono le testimonianze di giovani e coraggiosi collaboratori costretti a pietire un giusto compenso, una sistemazione decorosa all’interno dei giornali, perfino un rimborso spese che è dovuto. Eccone alcune raccolte da IrpiMedia.
Qual è la cosa più spiacevole che ti è capitata sul lavoro?
1) “Meno di una settimana prima dell’inizio di un nuovo contratto, il direttore mi ha comunicato che non mi avrebbero rinnovato, come se la colpa fosse mia. Io, che per quel lavoro avevo cambiato città, mi sono sentita crollare la terra sotto i piedi: soffrivo di insonnia e attacchi di apnea notturna”.
2) «Ricevevo continuamente pressioni da parte del capo per l’ennesima breaking news da scrivere velocemente. Non riuscivo a dormire se non sognando breaking news, avevo attacchi d’ansia continui».
3) «Per uno dei principali quotidiani italiani con cui collaboro mi trovo a svolgere anche innumerevoli altri ruoli: caposervizio per prodotti editoriali del gruppo, social media manager, organizzazione eventi, ufficio stampa. Durante un evento mi è stato chiesto di servire gli antipasti».
Qual è la cosa più pericolosa che ti è capitata sul lavoro?
1) «In Medio Oriente, per scrivere un reportage finito sulla prima pagina di uno dei maggiori quotidiani italiani, sono stato temporaneamente detenuto. Quando, dopo la pubblicazione, chiesi quanto mi avrebbero pagato, mi risposero: “Ti stiamo insegnando un mestiere”. Avevo 21 anni».
2) «Dopo aver consegnato un pezzo da fare sul campo dopo la mezzanotte, sono rimasta sola in strada in piena notte subendo catcalling. Non avevo alcun modo di tornare a casa, i mezzi pubblici erano chiusi».
3) «Ero in Africa per un reportage e non mi è stato dato il budget per pagare un autista privato, così mi sono dovuto affidare a un mototaxi locale. Ho rischiato di essere rapito, per un pezzo da freelance pagato all’epoca 83 euro lordi. Con foto, ovviamente”.
L’indagine è stata curata da Alice Facchini (autrice), Christian Elia (editing), Lorenzo Bodrero (infografiche).
Che cosa ci dicono questi racconti e le percentuali sul disagio creato dall’essere precari? Che c’è una categoria di professionisti costretta ad assistere a un’agonia, ogni mese testimoniata dai numeri sempre calanti delle vendite, e a una crisi che viene spacciata come proveniente da un altro mondo. Invece è propria di questo mondo.
La salute dei precari, come si è visto, è preoccupante, ma la guarigione arriverà solo se il giornalismo guarirà dai suoi mali, ormai insopportabili.