La “sindrome del Pontelungo”, lavori lunghi sul Reno, inquina il dibattito. Anche a Bologna ci sono problemi che fino a un paio di anni fa sembravano riguardare solo altri territori. Il climate change colpisce un sistema che sembrava immune alle alluvioni. Ma prima di cercare capri espiatori auto-rassicuranti e di capire diamo una mano alla politica a uscire dal pantano. Scrive così il direttore del sito CantiereBologna. Un articolo sulla Bologna ferita dall’alluvione che riproponiamo integralmente.
di Giampiero Moscato
Siamo nel pantano. La crisi climatica è arrivata fin qui. Ora, violenta, purtroppo annunciata. Inesorabile. Prendiamone atto. Non ha senso cercare capri espiatori che, oltre al comprensibile ma non corretto bisogno di auto-rassicurazione, hanno il cattivo sapore dell’ingiustizia. O delle troppo facili soluzioni.
Il mondo intero geme. La gente fugge da carestie, siccità e inondazioni e cerca rifugio in Occidente (secondo altri, gli stessi delle auto-rassicurazioni, ci “invadono”) perché la Terra è in preda a una febbre grave. Dare la colpa a Bonaccini, Priolo o Lepore – o a Musumeci, Fontana, Zaia, Meloni, Macron, Scholz – è un superficiale esercizio, senza soluzione. Davvero Matteo Lepore avrebbe potuto fare qualcosa contro i 156 mm di pioggia (140 in sei ore) caduti su Bologna sabato 19 ottobre?
Ascolto tutti, come ciascuno dovrebbe, senza pregiudizi. Ho amici geologi, fisici del territorio, ingegneri. Leggo giornali e siti. Gli “esperti” hanno raccontato bene cosa è successo. A loro avviso. A loro avviso perché nemmeno tra loro c’è unanimità di diagnosi. Secondo la maggioranza gli eventi climatici sono stati tali che hanno messo in crisi un sistema concepito quando ancora esistevano le quattro stagioni e non c’erano gli eventi estremi e ripetuti di questi anni.
Secondo una minoranza, per altro autorevole, in qualche modo c’è colpa delle amministrazioni perché in questi anni, complice anche l’abbandono delle terre, soprattutto appenniniche, non è stato fatto il necessario per salvaguardare fossi, torrenti, fiumi, tombati o meno che siano. Si è fatto poco, male, magari non dappertutto. C’è la “sindrome del Pontelungo”: siccome per ristrutturare il manufatto che scavalca il Reno tra la città vecchia e Borgo Panigale ci si sta mettendo degli anni allora evidentemente l’amministrazione ha colpe distribuite su tutto il territorio.
Non ho le competenze per contraddire gli ultimi, ma in coscienza (mai vista tanta pioggia e così lunga, concentrata e violenta in 66 anni) sono propenso a credere ai primi.
Sabato sera mentre tornavo a casa verso le 23.30 mi sono trovato davanti all’asfalto di via Toscana (esente dai lavori del tram e mai sofferente prima per la pioggia) che si apriva verso l’alto per la pressione delle fogne che evidentemente ricevevano l’acqua (altro che tombini muniti) ma forse troppa rispetto alla portata per cui erano state concepite, quando la natura in Italia era più mite.
So anche, me lo ha raccontato un amico geologo, che forse sul Ravone, dopo l’alluvione del maggio di un anno fa, è stato fatto un errore tecnico nei lavori di sistemazione. Sarebbe stata rallentata, per diminuire la pressione interna, la velocità di transito delle acque. Con l’effetto nefasto, benché non voluto, di aumentare il deposito di sedimenti sul letto del torrente tombato. Fango che resta in loco e non procede verso il mare. E dunque diminuisce il volume dello spazio di transito delle acque.
Ripeto, non so se questa storia sia vera. Si pronuncino i tecnici. Magari una commissione di inchiesta potrebbe dare risposta a una cittadinanza impaurita e incerta e indicare i lavori da fare per difendersi dall’attacco di un clima impazzito. Siamo tutti nella stessa melma.
Resta che in questi casi, nel disastro, le famiglie si uniscono. E l’Emilia Romagna si vanta sempre di sapersi rialzare. Chi spara addosso a qualcuno e lo addita alla colpa forse ama inspiegabilmente sguazzare nel fango come un facocero. Oppure ha l’istinto profittatore dello sciacallo.
Diamo, ciascuno di noi, un contributo alla risoluzione del problema. Spalando il fango, pulendo gli scantinati, dando un contributo economico al lavoro dei soccorritori, scendendo in strada disponibili a dare una mano. Nel fango si può sguazzare, ma anche diventare angeli. E riscoprendo la dignità originaria di essere cittadini.
Bologna così in ginocchio la ricordo solo dopo il 2 agosto 1980. Diamo una mano all’autentica politica, quella costituzionale, di qualunque colore essa sia, a risolvere i disastri melmosi che piovono sulla nostra comunità. Nel pantano ci sguazza solo chi ha secondi fini: lo sciacallo.