La grande scrittrice iraniana Azar Nafisi, da anni in esilio negli Stati Uniti, racconta di come nel suo Paese le donne che protestano compiano atti eroici e siano da considerare le vere guardiane del mondio libero. L’autrice di Leggere Lolita a Teheran sapeva che prima o poi gli ayatollah avrebbero attaccato Israele, per mostrare i muscoli”.
“Le adolescenti che ogni giorno lasciano l’hijab a casa sono valorose guardiane del mondo libero: mi commuovono. Sono le figlie simboliche delle mie studentesse di Leggere lolita a Teheran. Sono il risultato della nostra evoluzione. Quando vivevo in Iran (ha lasciato il Paese nel 1997, ndr.) mettevo un filo di rossetto, sembrerà nulla in Italia o in America, ma ai miei tempi era vissuto come un’arma di distruzione di massa”.
E sabato sera, Azar Nafisi se lo sentiva. Quando la Cnn ha dato la notizia dell’attacco con i droni a Israele , per la scrittrice iraniana non è stata una sorpresa: «Immaginavo avrebbero mostrato i muscoli». L’intervista alla grande scrittrice arriva in concomitanza con la pubblicazione per Feltrinelli della sua ultima fatica letteraria “Leggere pericolosamente. Il potere sovversivo della letteratura in tempi difficili”.
IL LIBRO. «Finché possiamo immaginare, siamo liberi» ha detto David Grossman. Ma – si potrebbe obiettare – non sarà un lusso riservato agli scrittori? In altre parole: la letteratura esercita un effettivo potere sulla nostra vita quotidiana? Un dialogo che la morte del padre non ha interrotto, sono la più persuasiva risposta a questo cruciale interrogativo. Mentre intorno a lei, anche negli Stati Uniti, la realtà si fa sempre più allarmante e indignazione e angoscia paiono sopraffarla, Azar Nafisi torna a immergersi nei libri che più ha amato, e ci mostra come Rushdie e Zora Neale Hurston, David Grossman e Margaret Atwood, e altri ancora, l’abbiano accompagnata nei momenti più difficili, come talismani. E le abbiano dischiuso inattese prospettive: insegnandole per esempio a dubitare della soffocante dicotomia tra aggressore e vittima; a vedere nell’odio e nella rabbia, in apparenza capaci di conferire identità, una fuga dal dolore – a comprendere che le grandi opere letterarie sono davvero pericolose, giacché smascherano ogni impulso tirannico, fuori e dentro di noi. Sicché leggerle pericolosamente significa accogliere l’irrequietezza e il desiderio di conoscenza di cui ci fanno dono.
L’INTERVISTA con Azar Nafisi di Veronica Tosetti pubblicata sulla rivista illibraio.it.
Dalla sua casa di Washington Dc racconta di non essere più preoccupata di una settimana, un mese o un anno fa. Perché?
«Perché sono sempre in tensione per il mio popolo in Iran. Vivo in costante angoscia per la brutalità di questo regime che uccide, tortura e, non contento, ruba anche i soldi ai cittadini per darli ad Hamas».
Ha sentito amici in Iran?
«Sì, li ho subito contattati. Nessuno vuole una guerra contro Israele, non solo perché la maggioranza di noi non ha alcun problema con il popolo israeliano, come vuole far credere il regime, ma perché gli iraniani e le iraniane hanno già una guerra in corso: quella contro il dittatore Ali Khamenei».
Un uomo che vede in Israele e negli Stati Uniti il male assoluto.
«Certo, perché sono gli ostacoli principali al raggiungimento del suo sogno: dominare tutta la regione. La Guida suprema ha sempre utilizzato la questione palestinese per i propri comodi. Il problema è che noi ne siamo ultra consapevoli. La nostra battaglia non è contro i palestinesi o gli israeliani, ma contro le dittature che opprimono».
Da un sondaggio su X si deduce che alcuni iraniani vedono in un attacco esterno una possibilità più veloce per sconfiggere gli ayatollah, per sempre.
«Capisco che si potrebbe pensare a questa scorciatoia, ma noi siamo popolo di rivoluzioni e dovremmo aver capito che per cambiare il sistema dobbiamo contare solo sulle nostre forze. Non sarà un Paese straniero ad affossare la dittatura. Le democrazie occidentali possono aiutarci smettendola una volta per tutte di fare affari con il regime. Dovrebbero promuovere le lotte delle ragazze e dei ragazzi d’Iran — così come quelle degli ucraini e degli afghani — non perché fanno compassione ma perché in questo momento storico sono loro sulle front line delle democrazie del mondo. Dobbiamo capire che la difesa della libertà di questi popoli è la difesa della libertà di tutti. Noi abitanti del pianeta democrazia ci siamo adagiati nella sicurezza fragile dei nostri privilegi: c’è molto da imparare dalle ragazze iraniane».
Cosa?
«Il coraggio, l’amore per la vita. In Iran, protestare come ha fatto il movimento Donna Vita Libertà, praticare la disobbedienza civile è un atto eroico. Le adolescenti che ogni giorno lasciano l’hijab a casa sono valorose guardiane del mondo libero: mi commuovono. Sono le figlie simboliche delle mie studentesse di Leggere lolita a Teheran. Sono il risultato della nostra evoluzione. Quando vivevo in Iran (ha lasciato il Paese nel 1997, ndr.) mettevo un filo di rossetto, sembrerà nulla in Italia o in America, ma ai miei tempi era vissuto come un’arma di distruzione di massa».
Non pensa che per rovesciare il regime a un certo punto ci sarà bisogno di metodi non pacifici?
«Non lo penso affatto. Questa nuova generazione mette in crisi Khamenei più delle altre proprio perché non parla la sua lingua. Lui li uccide e loro gli ballano in faccia. Li tortura e gli cantano in faccia. La musica, la poesia, la cultura sono le uniche cose che passano attraverso le sbarre delle loro prigioni».
E se Israele attaccasse?
«Sarebbe un grande problema. Vivere in Iran è già molto faticoso, anche la situazione economica è terribile: la guerra è sempre un disastro per il popolo. Ma io ammetto di non essere mai stata così speranzosa come lo sono oggi: credo che le cose cambieranno».
I suoi saggi sono in realtà lettere rivolte al compianto padre, che è stato il più giovane sindaco di Teheran fino a quando non è salito Kohmeini al potere. Lei non ha mai cercato la carriera politica e non ha mai assunto un ruolo pubblico. Ritiene che la sua scrittura sia politica?
“Tutto il mio lavoro – ciò che scrivo, i miei libri, gli incontri, i dibattiti – lo considero alla stregua di una lotta esistenziale, più che politica. In quanto donna, professoressa, scrittrice e lettrice mi oppongo al regime islamico, che vuole confiscare la mia identità e quella di milioni di donne con me. Quando scrivo mi rifaccio a quella comunità umana di cui parlava Primo Levi. Scrivere ha a che fare con la verità. Il totalitarismo ha a che fare con il potere e con la manipolazione, che sono quanto di più lontano dalla verità”.
Il libro è stato scritto tra 2019 e 2020, anni che hanno segnato un cambiamento epocale. Lei parlava di Trump, Iran, Israele e Palestina. Dopo il 2020, sembra che i conflitti si siano accelerati e che siano diventati ancora più aspri e che le “dittature” vogliano espandersi oltre i confini e contaminare la democrazia. Che ne pensa?
“Sono molto preoccupata per le democrazie dell’Occidente. Lottare contro un Regime dà una direzione precisa. In una democrazia si rischia di dimenticare che qualcuno è morto per assicurare agli altri la libertà di cui gode. Bisogna tutelare con grande cautela la libertà di espressione, per esempio, che è la sola cosa a consentire ai poeti, agli scrittori, agli artisti di esprimersi. In Iran i primi a essere osteggiati, torturati, uccisi sono stati proprio i poeti, gli scrittori, gli artisti”.
In Iran le donne sono più rilevanti che mai (si pensi a Mahsa Amini e alla Nobel per la pace Narges Mohammadi). Perché sono così importanti per il cambiamento?
“Le donne sono importanti innanzitutto perché rappresentano la metà della popolazione. Non lasciare che le donne si esprimano vuol dire censurare metà della popolazione; in secondo luogo, le donne rappresentano sicuramente una prospettiva diversa sui problemi e sulle loro soluzioni. In Iran le donne sono pericolose non solo per quello che dicono ma, addirittura, anche solo per come si vestono. Cosa indossano e come le rende incredibilmente spaventose agli occhi di un Regime”.
Pensa mai di tornare all’insegnamento?
“Sì, mi manca moltissimo insegnare. Mi sono sempre stupita per la quantità di cose che imparavo insegnando ai miei studenti, comparate a quelle che conoscevo all’inizio di un corso”.
A proposito, che differenza c’è tra i suoi libri e le sue lezioni?
“Insegnare vuol dire andare verso l’altro, è un atto pubblico. Scrivere è contemporaneamente, e magicamente, due cose: isolarsi per dare voce a qualcosa di profondamente intimo, ma farlo per poi andare verso il prossimo. Quindi la scrittura è, al contempo, qualcosa di profondamente intimo e qualcosa di veramente pubblico”.