Nella città in cui Pascal non farebbe fatica a raccogliere il 20% al primo turno delle amministrative, Bologna, l’ottimismo della ragione è diventato, purtroppo, merce rara. Dio solo sa quanto bisogno ci sarebbe di fare proseliti.
di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cantiere Bologna
Era difficile non pensare allo stato di questa città, osservando la scena di una Sala Borsa gremita (foto) per la cerimonia di conferimento dell’Archiginnasio d’oro a Romano Prodi. Fuori era il classico lunedì mattina di primavera, col caldo non più tanto anomalo cui il cambiamento climatico ci ha abituato e che solo un miscredente potrebbe negare. Le note di sassofono di un artista di strada e i deliri di un tossico in botta si confondevano nello stramaledetto fracasso dei motori endotermici, di cui continuo a sperare potremmo presto e gioiosamente fare a meno.
Mentre mi abbandonavo ai “piaceri” del fumo mi chiedevo quanti, tra i passanti, fossero consapevoli di ciò che stava accadendo dietro la porta a vetri alle mie spalle. E ancora di più cosa fosse arrivato, di quella mattina, al di là del ponte di via Matteotti o ai capolinea del 14. La risposta esatta ovviamente non ce l’ho, ma il timore razionale è che fosse, purtroppo, molto poco.
Si sarebbe tentati di dire, guardando la canizie e i curriculum della maggior parte dei presenti alla cerimonia, che la parabola umana e politica di Romano Prodi appartenga a un’epocad’oro della città e del Paese, ormai lontana nel tempo e nello spazio dall’immaginario collettivo che oggi, da bolognesi e italiani, abbiamo di noi stessi. Ma forse quello che davvero differenzia la Bologna di allora da quella dei giorni nostri non sta tanto nel campo della qualità, quanto piuttosto in quello della quantità. Perché è indubbio che definirsi città metropolitana, se non scade nel gattopardismo burocratico tipicamente italiano, comporta irrimediabilmente l’accettazione di un allargamento, con conseguente smagliatura, del tessuto sociale cittadino. Ed è lì che dovrebbe stare la politica.
A dire il vero, non è che a cavallo tra gli anni novanta e duemila non esistessero élite e massa. Era la distanza tra le due compagini a essere – o perlomeno sembrare – molto più breve. E tra tutti i protagonisti pubblici dell’epoca, sento di poter dire che il Professore è forse quello che più di tutti, a dispetto di un cursus honorum obiettivamente sesquipedale, riuscì nell’intento di rendere accessibili le sue competenze e coinvolgere nella sua visione politica anche l’ultimo degli elettori di centrosinistra, resistendo alla volgarizzazione individualista imposta dalla pur dominante subcultura berlusconiana.
Sul punto, del resto, la catechesi d’area non ammette interpretazioni: «Ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non solo uno per uno». Tuttavia, se oggi mi guardo intorno non vedo, nel variegato mondo della sinistra italiana, qualcuno in grado di coagulare in modo tanto magistrale l’alto e il basso del Paese e del mondo per farne un disegno organizzato, coerente e globale. Questa è decisamente l’epoca degli specialisti, solisti concentrati su porzioni di realtà che non riescono a dialogare tra loro. E dir che le contro narrazioni – e i contro narratori – al solipsismo digitale ci sarebbero. Il problema è che nessuno è interessato a farli emergere.
In attesa che per grazia divina o trionfo della ragione l’emersione avvenga, non resta che godersi, finché vorrà concedercele, le visioni “ampie” del Professore. E sperare, al contempo, che tra gli uomini della strada e quelli dei palazzi la distanza non si faccia ancora più siderale di quanto è già.
In una città pervasa di giansenismo, dove Pascal non avrebbe fatto fatica a raccogliere il 20% al primo turno delle amministrative, l’ottimismo della ragione è diventato, purtroppo, merce rara. Dio solo sa quanto bisogno ci sarebbe di fare proseliti.