di Sara Di Antonio
“Ci sono dei bei concerti per questa stagione in teatro”, dice mio marito, ma io non lo ascolto, tutte le mie forze sono concentrate sulla giornata aperta del liceo scientifico. V. me ne parla da giorni, ho spostato degli impegni per esserci. Lo scalone è immenso – è troppo grande questa scuola per me- e nonostante un volto amico ci accolga, la rassicurante vicepreside, non sorrido neppure quando appare la bidella, la medesima del classico.
Costei però mi riconosce -sono pur sempre colei che vaga incerta da tre anni chiedondo le aule in cui ricevono i professori- e mi indica con simpatia l’enorme scala in cui sciami di genitori si dirigono. Nell’aula magna, immagini torve di scienzati ci sorvegliano spente: ripenso al piccolo quadrato del liceo classico, una certezza di bruttezza e di piatta ospitalità.
Assisto alla presentazione, facendomi per un attimo sedurre dalla preside – la stessa del classico – ma soprattutto dai tre magnifici ragazzi sul palco. La studentessa è elegante e aggraziata, ma in realtà timida e intelligente. Seminano simpatia con il loro misto di piacioneria e savoir faire. Potrei portarmeli a casa, domandare se possono diventare i fidanzati di G., ma devo rispettare l’autonomia nelle scelte amorose delle mie figlie, purtroppo.
Le due ore di lezione catartica (quadri orari, iscrizioni, tripli e doppi diplomi), comprese le domande ansiogene di ogni tipo, sono finite, e io scivolo giù infastidita da questa massa di genitori rispetto ai quali mi sento diversa, migliore.
Dentro di me, mi dico che potrei fare un’ultimo, definitivo, tentativo di portare V. al liceo classico, mentre incrocio con aria accidiosa le mamme che conobbi all’asilo, rispetto alle quali io non sono invecchiata e imbruttita, loro invece chiaramente sì.
In questo delirio di onnipotenza, in chiara astinenza di riflessioni adulte e della compagnia di persone giuste, nonché probabilmente di cibo, mi avvio a cercare la mia secondogenita. Non è nell’aula di lingua, non si sta interessando ai primi rudimenti di francese, e neppure di tedesco. Non si interessa del suo futuro, non più almeno di quanto i miei gatti si curino delle loro code. Mentre accartoccio il lunghissimo piano orario tra le mani, arrivo davanti al laboratorio di chimica.
Allora vedo tra la folla di ragazzi, imbacuccata in un camice, proprio V. che maneggia le sue provette, di cui più tardi mi racconterà i nomi tra cui svetta il Beker, che mi ricorda il famoso tiro di pallavolo in cui mai eccelsi. Il suo sguardo è, in una parola, felice. Io indietreggio, e ripenso all’oracolo di Delfi, che ci imponeva il “Conosci te stesso” almeno per iniziare a rendere la vita degna di essere vissuta. Per cui va bene così, mio austero Lazzaro Spallanzani, aggiungeremo una ragazzina alle tue adepte.
Di colpo, gli altri genitori, perfino le mamme dell’asilo, mi sembrano diversi, migliori di me, meno invecchiate e imbruttite le donne. Inforco l’uscita trascinandomi dietro mia figlia la quale pronuncia in modo sincopato: “Biochimico, biochimico!”. Appena torno a casa darò un bacio a G., la mia svogliata, ma pur sempre classicista.