di Piero Di Antonio
— Ma siamo sicuri che oggi valga la pena studiare per diventare giornalisti? Un tempo era il sogno di tanti ragazzi e ragazze. Riuscire a lavorare in una redazione era molto gratificante, e non soltanto per il prestigio personale.
L’interrogativo dell’incipit viene spontaneo nell’assistere al numero sempre crescente di notizie poco rassicuranti che arrivano da quel mondo: ristrutturazioni di giornali, testate gloriose e spesso redditizie messe in vendita (esemplare il caso Gedi-Exor-ex Fiat con i giornali locali), aumento delle richieste di pre-pensionamento, compensi irrisori a chi tira la carretta delle notizie, ossia i collaboratori, gli ultimi cronisti sul territorio, licenziamenti a go-go, tralasciando le immeritate alte retribuzioni per alcuni vertici editoriali non sempre allì’altezza del compito, ma imbattibili nel restare sempre fedeli al padrone, meno ai lettori.
Costoro si ergono a protagonisti della nuova classe imprenditoriale che ha fatto toccare all’informazione del terzo millennio punte di cinismo professionale abbinato alla ferocia nei giudizi senza pari nel mondo cosiddetto libero. a parte, forse, i reporter con l’elmetto in testa della Fox Tv di Murdoch.
Giornali in mano a imprenditori e conglomerati finanziari poco o nulla interessati a sviluppare un’informazione di qualità che soddisfi in pieno i lettori. Ormai acquistare un quotidiano nelle poche e tristi edicole rimaste è un atto di amore. Perché resta vivo un legame che non si vuol spezzare, romantico attaccamento al tempo glorioso che fu. C’è il digitale, affermano i nuovi conquistatori dei media, ma nel frattempo i grandi gruppi continuano a investire nell’azionariato dei giornali di carta. Chissa perché, viene da chiedersi. Forse perché, a discapito dell’informare, come lobby funzionano parecchio.
Esempi e legittimi dubbi non mancano. Ecco una carrellata di ciò che sta avvenendo nel mondo dell’informazione nell’appiattimento quasi totale dell’opinione pubblica e di chi avrebbe il compito e il dovere di renderla edotta su certi avvenimenti di rilievo.
Le tv non più capillari mezzi di diffusione della cultura e delle informazioni, ma arene delle disfide politiche con due regole basiliari per sopravvivere: la lottizzazione, per il controllo del flusso di notizie e per i favori da rendere al padrino politico, e la trasformazione in agenzia di collocamento dei galoppini, ai quali, prima o poi, si deve pur trovare un qualcosa da fare. Parcheggiarli nelle televisioni è la soluzione ideale e indolore per il fortunato, anche se lo è meno per il contribuente.
Nei canali pubblici – e si arriva alla questione della qualità che ci viene dispensata giorno e notte – alcune perforrmance stanno toccando vette mai viste di approssimazione e sciatteria, da far rimpiangere a molti i tempi della Democrazia Cristiana. Le domande poste all’intervistato di turno sono di una banalità disarmante. Facile prevedere che tra non molto ci toccherà sentire la domanda del giornalista lottizzato al potente di turno: “Onorevole, a casa tutti bene?”.
Non è giornalismo, è un voler servire a milioni di cittadini un’insalita mista di tutto, ma con un ingrediente che manca sempre o che, nel migliore dei casi, è ben nascosto: la notizia. Ai tempi della Prima Repubblica veniva almeno rispettato un sistema di selezione basato su una regola: “Un giornalista della Dc, un altro del Pci e il terzo uno bravo”.
Non è che l’attuale sistema, badate bene, si regga su notizie palesemente false. No, quel che conta è la creazione di un contorno, di un ambiente, di un clima sempre favorevoli al potere, di qualsiasi natura il potere sia: politico, economico, lobbistico, clientelare. Ci tocca assistere a resoconti dove l’arte dell’uomo con il microfono in mano è nel mettere sotto il tappeto o scansare i fatti, evitare di andare nel profondo dei fenomeni e degli eventi. Il microfono oggi richiede furbizia. Se si sgarra dalla ferrea legge della maggioranza è probabile ritrovarsi segregato in qualche sgabuzzino della tv, magari nel magazzino degli attrezzi di scena (è avvenuto sul serio), magari a sfogliare il Corriere dello Sport.
Il privato, il simbolo della libertà e delle cose ben fatte, riesce, invece, a barcamenarsi bene. Campagne politiche ben orchestrate dai vari conduttori (a sentirli sono tutti liberali) che sanno miscelare ospitate e argomenti come e meglio di un manuale Cencelli.
Lì il vero capolavoro, una volta in onda, è riuscire a modulare bene i toni della discussione. C’è l’indignazione urlata, c’è la carezza all’amico del padrone, c’è la giornalista a la page che incalza gli ospiti. E poi problemi ripetuti all’infinito per enfatizzarli e farli apparire come le vere cause delle sfortune e delle disgrazie di chi guarda.
All’occorrenza basta ricorrere al bagaglio di frasi pre-confezionate utili per poter urlare “vergogna”, che sarebbe poi, agli occhi dell’ingenuo spettatore, una specie di passaporto per il coraggio. E i fatti? Ma quelli bisogna scovarli nei vari indizi, come se ci trovassimo non a un tg o a un talk show, ma spettatori di una caccia al tesoro.
In quanto a problemi profondi e sentiti non ci siamo ancora. La prima regola dell’informazione televisiva, di pancia, è che certe notizie fanno pensare e vuoi mai che qualcuno cominci ad apire gli occhi e a vedere che il “il re è nudo”?
QUANTA GENEROSITA’. A questo punto un esempio. Riguarda l’Agi (Agenzia Giornalistica Italia), diretta da Rita Lofano – succeduta a Mario Sechi entrato prima nella corte di Giorgia Meloni e poi in quella di Libero – con Paolo Borrometi, simbolo del giornalismo anti-mafia, come condirettore.
Ebbene l’Agi, che è di proprietà dell’Eni, il colosso pubblico dell’energia che accumula in un mercato domestico monopolistico miliardi di utili, ha pensato bene di ridurre i costi delle collaborazioni. Ti pareva, mai che il taglio avvenga ai piani alti. Un articolo che prima veniva pagato 15 euro (lordi) ora garantirà al collaboratore che scarpina la bellezza di 10 euro, sempre lordi.
E quanti articoli volete che riesca a scrivere? Si scrivono forse in un’ora? Magari… Prima bisogna essere presenti all’evento, aspettare la fine dell’evento stesso (vuoi che sfugga la notizia dell’ultimora?), poi bisogna mangiare un panino e tornare a casa. In redazione no, lì le poltrone sono occupate da colleghi che spesso bivaccano in attesa proprio del pezzo del collaboratore che si sta distraendo troppo con il panino in bocca. Poi scrivere il pezzo, correggerlo, aggiornarlo e, alla fine, inviarlo al redattore. Tutto per dieci euro lordi, se l’articolo è di gradimento. Altrimenti, va riscritto, e addio pizza con gli amici o con la fidanzata.
La Federazione nazionale della stampa – gente che per fortuna ha ancora a cuore la professione e chi si barcamena tra precariato e sfruttamento – non ha mancato di denunciare il taglio netto dei compensi invitando l’azienda“a ritirare questa iniziativa brutale nel metodo e nella sostanza. Si tratta di lottare contro il precariato e contro lo sfruttamento dilagante in tutto il settore dell’editoria. L’equo compenso – sostiene – deve diventare una battaglia condivisa per garantire condizioni di lavoro dignitose a garanzia della qualità e della libertà dell’informazione”.
Ma vogliamo parlare anche di licenziamenti? Domenica 29 ottobre La Gazzetta del Mezzogiorno non è uscita per lo sciopero dei redattori contro il licenziamento di 47 giornalisti. Il provvedimento è la conseguenza dell’avvio della procedura di dichiarazione di esuberi nelle redazioni decentrate e di poligrafici. Il numero complessivo dei licenziamenti supererebbe le 70 unità, più di metà dei dipendenti del quotidiano pugliese, che sono in tutto 110. Una ristrutturazione causata dalle forti perdite registrate in meno di due anni di gestione della nuova proprietà.
In questa sfilza di eventi nefasti per i media italiani tralasciamo le grandi performance dell’ex Fiat, ridimensionata a gestire l’ex glorioso quotidiano La Repubblica e la Stampa, il foglio aziendale.
Domanda finale: ragazzi, ma vale davvero la pena oggi entrare in un giornale? Se il desiderio è talmente forte da accettare di correre per la città in cerca di una notizia o di uno spunto, tenete sempre a mente una frase, qualora riusciste a essere assunti in una redazione: “Non dite a mia madre che faccio il giornalista, ditele che suono il pianoforte in un locale notturno di New York”.
Comunque, in bocca al lupo.