domenica 24 Novembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

LA CRONACA NON E’ TEATRO

“Non c’è niente di più di una guerra per raccontare il dolore e la crudeltà del genere umano. Nella guerra succede davvero di tutto, tutta la natura umana si rivela. Buona o cattiva che sia”. Ettore Mo inviato di guerra del Corriere della Sera.

Mentre infuriano feroci conflitti, è venuto a mancare Ettore Mo, giornalista, inviato di guerra, tra le firme più importanti dell’informazione italiana. Ne ha dato notizia Milena Gabanelli con un post su X, da lei definito “un compagno di viaggio, un amico e maestro. Da lui l’insegnamento più grande: imparare a raccontare senza aggettivi. Ci ho provato. Stasera sul tuo lago Maggiore fa un po’ più buio”.

Ettore Mo, nato a Borgomanero, in Piemonte, aveva 91 anni: sotto i suoi occhi e attraverso la sua penna, per decenni il racconto delle più grandi crisi mondiali, le guerre, le interviste ai big della storia.  Diceva: “Un giornalista deve essere prima di tutto un cronista, assolutamente un cronista”. E poi la sua battuta più celebre (e vera): “La cronaca non deve mai sembrare teatro, deve essere precisa e puntigliosa”.

Costante, per Ettore Mo, il richiamo al dovere del cronista: raccontare, senza inutili fronzoli, rimanendo un passo indietro al fatto, la storia innanzi tutto. Quella che, una volta in pensione, aveva definito “una malattia: se hai avuto la fortuna di essere testimone dei più grandi avvenimenti non riesci più a farne a meno”

I primi passi nel giornalismo sono stati mossi al Corriere della Sera, nei primi anni 60, dopo aver fatto i lavori più disparati “sguattero e cameriere a Parigi e Stoccolma, barista nelle Isole della Manica, bibliotecario ad Amburgo, insegnante di francese (senza titoli, naturalmente) a Madrid, infermiere in un ospedale per incurabili a Londra e infine steward in prima classe su una nave della marina mercantile britannica”.

Per poi arrivare al 1979 quando arrivò in Afghanistan per la prima volta e scoprì la sua vocazione. Per lui – raccontano al Corriere della Sera –  il dovere di andare e raccontare superava qualsiasi barriera o pregiudizio.

Foto da Corriere.it

Dell’Afghanistan scrisse: “Per me la guerra dell’Afghanistan cominciò quella mattina di giugno del ’79 nella valle di Kunar quando dall’alto di una montagna vidi una piccola zattera che attraversava il fiume. Galleggiava su vesciche d’animale gonfie d’aria e gli uomini armeggiavano a fatica nella corrente vorticosa”.

Raccontava così in Kabul Kabul, il libro in cui Ettore Mo aveva riunito, con Valerio Pellizzari, le esperienze in terra afghana. Un esempio del suo racconto puro e diretto: “Ma i due ragazzi adagiati sotto il telo bianco non sentivano le voci, né gli scossoni, né il gorgoglio dell’acqua che, filtrando da sotto l’imbarcazione, gli scioglieva il sangue raggrumato nelle ferite”.

L’Africa, il Medio Oriente, i Balcani, tutta l’Asia e l’America Latina. Mo girò e descrisse le guerre di tutto il mondo, sono stati i suoi terreni di caccia abituali ma, come ricordano al suo Corriere, ancora e sempre Kabul sarebbe rimasto il luogo della sua anima. Fu uno dei pochi reporter occidentali a incontrare il leader del neonato movimento di Hamas a Gaza quando vennero espulsi in Libano dal governo israeliano tra il 1992 e 1993. Rimase nelle loro tende nella terra di nessuno vicino al confine israeliano per 48 ore, raccontano sempre al quotidiano milanese.

In una delle ultime interviste, Mo, alla domanda di quale angolo del pianeta ancora lo potesse appassionare, rispondeva : “Il Terzo Mondo, sempre.Io sono del Terzo Mondo”.

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