La diseguaglianza di reddito in Italia è tra le più alte tra i paesi dell’Ocse. E’ cresciuta nettamente all’inizio degli anni Novanta e ha fatto un balzo ulteriore durante la pandemia. Potrebbe essere riconducibile alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro. E sulla scena europea avanza un’agguerrita classe sociale: quella del rancore e degli arrabbiati. Le soluzioni indicate dall’economia civile alla vigilia del Festival nazionale di Firenze.
“Disuguaglianza in Italia; cosa è cambiato in trent’anni” è il titolo di uno studio degli economisti Daniele Checchi e Tullio Jappelli pubblicato sulla voce.info. (Qui la versione completa)
Dal 1990 l’Italia ha attraversato quattro recessioni originate da shock molto diversi: la stabilizzazione del debito dopo il trattato di Maastricht, la crisi finanziaria, la crisi del debito sovrano e la pandemia. Ogni recessione è stata seguita da riprese contenute, producendo un periodo complessivo di crescita stagnante. Ciò si è riflesso in una bassa crescita della produttività e dei salari reali.
Nel periodo – scrivono i due economisti – il Paese ha registrato un aumento della partecipazione al mercato del lavoro, una maggiore flessibilità nella regolamentazione, una frammentazione degli orari e una crescita di forme di lavoro part-time. Le recessioni si sono innestate in uno storico divario territoriale, che non si è ridotto nel periodo considerato. Dal momento che la domanda complessiva di ore lavorate non è aumentata (in termini di unità standard di lavoro), la frammentazione delle opportunità di lavoro è associata a un aumento della quota di lavoratori con bassi salari.
Tra i paesi Ocse, l’Italia si colloca ai primi posti in termini di disuguaglianza di reddito. Il nostro Paese occupa la terza posizione, dopo Stati Uniti e Spagna. La Germania, la Francia e la maggior parte degli altri Paesi europei presentano indici più bassi. L’evidenza storica indica una lenta riduzione della disuguaglianza dei redditi dall’inizio degli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta e un aumento della disuguaglianza negli anni Novanta.
I dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia mostrano che la percentuale di persone che dichiarano di essere occupate a tempo parziale è molto più alta per le donne ed è aumentata notevolmente negli ultimi tre decenni. Nell’ambito del progetto “The IFS Deaton Review” coordinato dall’Institute of Fiscal Studies di Londra., si rileva anche che il premio di genere (il rapporto tra la retribuzione media maschile e quella femminile) e il premio per l’istruzione (il rapporto tra la retribuzione media dei laureati e dei non laureati) sono aumentati considerevolmente negli ultimi anni, in particolare durante la crisi Covid.
Infine, il forte aumento dell’occupazione part-time e a tempo determinato aumenta la disuguaglianza nei guadagni attraverso un drastico cambiamento nella dispersione delle ore annuali lavorate tra i posti di lavoro. La spiegazione più probabile dell’aumento della disuguaglianza dei redditi è l’accresciuta flessibilità del mercato del lavoro a seguito delle riforme degli ultimi tre decenni, e cioè la riforma Treu del 1997, la riforma Biagi del 2003 e il Jobs act del 2015.
I canali sono almeno due: il forte aumento del part-time, principalmente per quanto riguarda le donne, e il ricorso crescente da parte delle imprese a contratti a termine, che operano anche come segnale sulla carriera retributiva futura.
Anche Eran Hoffmann, Davide Malacrino e Luigi Pistaferri, utilizzando dati amministrativi di fonte Inps, concludono che negli ultimi tre decenni la disuguaglianza delle retribuzioni è aumentata sia per gli uomini che per le donne, e che “la sequenza di riforme del mercato del lavoro attuate dalla fine degli anni Novanta è la più probabile spiegazione per entrambe le tendenze”.
LA NUOVA CLASSE DEL RANCORE
Fin qui le risultanze dell’indagine. Ma ci sono aspetti sociali e politici che derivano dall’accrescersi delle diseguaglianze che determinano quella che oggi parecchi sociologi e studiosi di economia definiscono “la classe del rancore”. Ovvero del sempre crescente numero di complottisti, sovranisti, negazionisti, no vax e altro che costituiscono una delle principali e preoccuoanti incognite che incombono sull’Europa.
Un approccio diverso per contrastare tali fenomeni lo ha indicato in un intervento televisivo l’economista Leonardo Becchetti, docente all’università di Tor Vergata e direttore del Festival dell’economia civile di Firenze (28 settembre-1° ottobre). “Basta affrontare con i vecchi strumenti problemi nuovi. Occorre intervenire alle radici dei nuovi fenomeni come l’inflazione per il clima, le crisi dell’energia derivanti dal legame con il petrolio e il gas”.
Le diseguaglianze – è la tesi di fondo di quella che viene chiamata economia generativa – creano cittadini arrabbiati e amplificano il divario tra le varie classi sociali con punte insostenibili di regressione. La soluzione, sostiene il professor Becchetti, sta nel valutare fondamentale il ricorso all’economia della Costituzione, propria dell’economia civile in contrasto con l’economia predatoria.
“Sottrarsi alle pesanti ripercussioni sociali ed economiche del legame alle fonti fossili è possibile – ha detto Becchetti – ad esempio il fotovoltgaico oggi ha costi ridottissimi. Pensate che nel giro di pochi anni l’Africa, le cui condizioni climatiche sono più favorevoli del Nord Europa, potrebbe diventare esportatrice di energia.”
Un capitolo a parte merita il PNRR con l’Italia, uno dei leader mondiali delle disuguaglianze, che non riesce a gestire il grande afflusso di finanziamenti per progetti innovativi. Come dire, ancora una volta si tenta di fronteggiare nuovi e preoccupanti fenomeni con vecchie armi spuntate.