Con l’avvento al potere della Destra e il conseguente controllo dei media che sta esercitando in forme aggressive, è noioso oggi ascoltare stucchevoli neologismi in voga dagli Anni Settanta-Ottanta per avanzare critiche alla sinistra: radical-chic, sinistra al caviale, partito della Ztl, Capalbio, terrazze romane e via dileggiando.
Oggi, se dici o ti comporti come un radical-chic sei finito, bruciato. Se appartieni alla borghesia, al mondo della cultura e dello spettacolo, se ostenti idee e stili di vita in controtendenza al ceto di appartenenza rischi di essere messo all’angolo. E nelle urne non avrai mai scampo.
Sei bollato come un tipo che finge di disprezzare il denaro, quando in verità conduci una vita con il rassicurante e comodo sottofondo della disponibilità finanziaria. Vieni additato come uno che se la tira, convinto di avere una superiorità culturale e senza alcuna remora nell’ostentarla. Insistendo su questi luoghi comuni la Destra conquista non pochi consensi e benefici elettorali.
La fotografia politica che si ottiene è la seguente: i destrorsi hanno posizioni conservatrici, sono patriottici e molto legati alla religione. I sinistri si dicono progressisti e internazionalisti, e vogliono che lo Stato sia laico. Sono radicali nelle convinzioni di solito ostentate a parole, ma con la puzza sotto il naso non appena vengono a contatto con gli ultimi, con coloro che arrancano nelle brutte periferie italiane, oggi il serbatoio della Destra. Abitano nei centri storici e votano a sinistra, ma sono considerati degli snob, quindi da disprezzare.
Ma chi è un radical-chic? Perché questa locuzione porta con sé un significato discriminatorio?
Andando all’origine della parola si scoprono cose interessanti. A parlarne per primo fu un grande giornalista e scrittore americano, Tom Wolfe, autore tra l’altro de “Il falò della vanità”, che in un articolo sul New York Magazine descrisse, da imbucato, un party a Manhattan organizzato per l’alta società newyorchese dalla moglie del compositore Leonard Bernstein per raccogliere fondi a favore del gruppo rivoluzionario marxista delle Pantere Nere.
La copertina fece clamore: tre donne dell’alta borghesia con capelli perfettamente in piega e in abito da sera, con il pugno sinistro ben alzato in primo piano. Un’offesa. Wolfe raccontò successivamente che con quell’articolo volle “fottere questi super ricchi bianchi che celebravano un movimento che prometteva di farli fuori tutti; e la buona società di New York non mi perdonò mai di avere demolito la loro ipocrisia”.
In Italia a rilanciare la locuzione è stata Lietta Tornabuoni, sulla Stampa, e poi Indro Montanelli nell’accesa polemica contro la “frivola borghesia lombarda” e contro Camilla Cederna, anche se il vero obiettivo del giornalista era la proprietaria del Corriere, Giulia Maria Crespi. La Tornabuoni sulla Stampa aveva scritto, siamo sempre agli inizi degli Anni Settanta: «Di cosa si parla a Roma, oltre che delle elezioni del Presidente, durante una serata che riunisce insieme Moravia, la scrittrice inglese Muriel Spark, Arbasino, Camilla Cederna, Natalia Ginsburg e Bernardo Bertolucci, insomma il Politburo delle voghe, il radical-chic locale, tutti i disponibili piloti del gusto?
La storia parte da lontano e ha attraversato non poche ere storiche e politiche. Ebbene la forza denigratoria di questa parola nel tempo ha perso vigore, si è affievolita. La nuova maggioranza di Destra però continua a farne un uso eccessivo, un intercalare in qualsiasi ragionamento, spesso banale, che ci tocca ascoltare in tv o alla radio.
Ma se l’ideal tipo radical chic ormai è ben definito, quale potrebbe essere oggi un ideal tipo di Destra? Ve ne sono parecchi, bisognerebbe solo avere il coraggio di contrapporli a una certa propaganda che è riuscita a penetrare nelle periferie, quelle abbandonate proprio dalla sinistra nella sua grande marcia di trasferimento al centro.
Se in certi salotti o a Capalbio staziona un ceto politico “parolaio, ipocrita, poco attento ai bisogni della gente comune”, in altri salotti o in Sardegna stazionano i fan del nuovo conformismo di destra. Gente che si sobbarca ore e ore di attesa sui moli per assistere all’arrivo dei nuovi campioni della modernità festaiola e soprattutto piena di soldi. Un Briatore o una Santanché non si negano a nessuno. Come li possiamo chiamiare questi campioni del saper vivere? E come definire, se non patetici e bambinoni, quei nostalgici delle divise fasciste e naziste che si fanno fotografare nei cortei dell’immortalità fascista, sebbene perdente? Dalle mie parti si saprebbe come chiamarli: cafoni.
E che dire del disprezzo per la cultura? Come reagire alla sempre attuale minaccia del “quando sento parlare di cultura metto mano alla pistola”? Tentano di apparire progressisti, in verità mostrano disprezzo per gli ultimi. Non amano i poveri ai quali addossano tutte le colpe. Mai una presa di posizione in favore degli ultimi, ma sempre ben disposti a giustificare comportamenti ingiusti e fuori le righe di chi vanta un certo potere e una certa predisposizione per gli affari, di qualunque tipo.
Se al radical chic non piace avere a che fare con immigrati e poveri (“attaccano la povertà”), alla Destra piace molto il pugno di ferro, respingerli in mare, togliere loro anche un minimo sostentamento mentre si rilassano sul divano. Vale sempre la suprema legge del privilegio: se sei povero la colpa è soltanto tua.
E a chi possiamo addossare la colpa di essere radical chic? Forse a nostri padri che sapevano benissimo cos’era la fatica e che se la portavano sempre appresso, però senza vittimismi o piagnistei. Che ci spingevano a studiare, a impegnarci, a essere persone civili e rispettose. Perché sapevano, già prima di Gramsci, che la cultura libera dal bisogno e dalla schiavitù per la quale, guarda caso, l’ignoranza fornisce le catene. (PdA)