Bruno Manfellotto, già direttore dell’Espresso (2010-2014), sottolinea gli obiettivi del giornalismo di Eugenio Scalfari, ancora tutti da realizzare. Giuliano Ferrara – con un certo livore, la cifra predominante del suo stare al mondo – gli attribuisce aspetti meno altruisti, quindi meno raccontati, in questi giorni.
Eugenio Scalfari avrebbe compiuto 100 anni il 6 aprile 2024, non ha raggiunto il traguardo solo per un anno e nove mesi. Delle voci che lo hanno ricordato, professione reporter.eu ne registra due.
Il 5 aprile, sull’Espresso, il settimanale che Scalfari fondò nel 1955 con Arrigo Benedetti, Manfellotto parla dell’idea di fondo dell’impresa: “Svecchiare un giornalismo paludato, modernizzare un’Italietta chiusa e bigotta, denunciare l’intreccio perverso di affari, politica e corruzione che conversano bellamente nella generale omertà”.
Ecco le inchieste sul sacco di Roma, gli scandali della Federconsorzi, dei tabacchi, dell’aeroporto di Fiumicino, la grande miseria del Mezzogiorno, le schedature del Sifar, il Piano Solo, la Razza Padrona. “Scalfari e i suoi – scrive Manfellotto – hanno in mente un’Italia che non c’è e pensano di poter dare un contributo a costruirla. Le virtù laiche cui si ispirano sono la tutela della democrazia appena riconquistata e il rispetto della Costituzione, che ne costituisce l’ossatura; e la modernizzazione; la giustizia sociale; la difesa dei diritti”.
Con la nascita di Repubblica (14 gennaio 1976), l’impronta dell’Espresso si arricchisce di nuovi obiettivi: ”Lo sdoganamento del Partito Comunista, incoraggiato nel lungo cammino verso la socialdemocrazia, l’argine alla minaccia terroristica; e poi l’allarme per ciò che si nascondeva dietro l’exploit berlusconiano”.
Mentre l’era dei giornali di carta appare conclusa e superata, conclude Manfellotto, “il codice genetico dei giornali di Scalfari resta vitale se messo al servizio di nuove imprese. Se non altro perché c’è ancora molta strada da fare prima che il Paese diventi quello che i ‘missionari laici’ (definizione di Carlo Caracciolo) sognavano”.
Nelle celebrazioni di Scalfari, scrive Ferrara sul Foglio del 6 aprile, “mi sembra si perda qualcosa di essenziale come il suo cinismo, il suo gusto per il potere e la frode intellettuale, la sua totale assenza di scrupoli, l’immoralismo travestito da predicazione di valori, il rapporto disinvolto con il denaro societario e il patrimonio personale, lo sfrontato provincialismo culturale, l’ambiguità politica, tutte cose molto importanti della sua personalità e del suo immenso successo di mercato come portavoce e profeta della nuova classe media italiana”.
E si chiede: “Perché nell’elevazione di Scalfari agli altari dovrebbero mancare la pugnalata alla schiena di Arrigo Benedetti, la vendita di Repubblica per offrire una dote alle figlie, la ricompravendita del giornale morale mediata dal Ciarra e da Andreotti e le tante altre cavalcate tra finanza, politica, narcisismo e vanità del nostro Bel Ami?
Quando fu fondata Repubblica avevo poco più di vent’anni, ora poco più di settanta. Per mezzo secolo ho avuto bisogno di quel giornale e delle sue campagne benpensanti come revulsivo per vomitare le mie manie al cospetto di un pubblico scandalizzato e indignato, in permanente assetto militante, non potevo non essere legato al carro dell’avversario ideale e pratico e al suo auriga”.
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Ps. Ho avuto Bruno Manfellotto come direttore, da lui c’era sempre qualcosa da imparare (PdA).
Armando Orlando
— Che Ferrara attacchi Scalfari non mi meraviglia. Ferrara fa quello che sa fare meglio, ovvero sofismi piacevoli da leggere (perché colgono un aspetto in ombra e sono qualitativamente più elevati della media italiana), ma pur sempre dei sofismi. Scalfari è Scalfari, e lo è anche da morto, perché ha creato un’azienda editoriale con centinaia di dipendenti. E questo per chi fa il mestiere non è una faccenda che possa lasciare indifferente e mi pare sopravanzi tutte le altre. Non gli era richiesto di essere simpatico (e a me non stava simpatico). Se però in Italia abbiamo due giornaloni e non uno lo dobbiamo a lui.
Ferrara è stato molto bravo a farsi pagare bene da Berlusconi e da chi è venuto dopo. Ha saputo vendere bene anche le sue caracollate a destra e a sinistra, ma cade sempre sulla stessa buccia di banana. Credere che tutti abbiano la sua (scarsa) morale ma non le sue qualità. Per essere autenticamente grandi e restare bisogna essere un po’ sfigati nella vita. Lui ha vissuto troppo bene. Non credo ce la farà a restare. Dovrà accontentarsi di essere il nostro Evelyn Waugh (e l’ho trattato, come dicono a Napoli), uno che sapeva il fatto suo, ma inquadrava più o meno sempre in mala fede le cose.
armando.orlando74@gmail.com
Analisi centrata