Eric Salerno, giornalista ed esperto di questioni africane e mediorientali (è stato corrispondente de ‘Il Messaggero’ da Gerusalemme per quasi trent’anni) ha scritto questo articolo per The Voice of New York (sito), il primo quotidiano digitale italiano-inglese degli Stati Uniti.
di Eric Salerno
C’è un uomo che, forse, potrebbe unire le varie fazioni palestinesi in lotta contro l’occupazione israeliana e guidare quel popolo arabo verso la creazione di uno Stato indipendente accanto a Israele. Il nome di Marwan Barghouti è sulla lingua di amici e nemici da molti anni. Quando lo incontrai, anni fa, era un giovane attivista che sembrava capace di generare una visione nuova della lotta palestinese dominata, allora, dalla vecchia guardia capeggiata da Yasser Arafat, il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina.
Oggi langue in un carcere israeliano. E la settimana scorsa l’Autorità palestinese ha accusato Israele di aver messo in pericolo la sua vita. È stato trasferito in una struttura di massima sicurezza, non può ricevere visite e sarebbe stato torturato dalle sue guardie.
Sua moglie, l’avvocata Fadwa Ibrahim Barghouti, sostiene che sarebbe stato picchiato “con delle spranghe” e ferito sul “volto, vicino agli occhi”. Le autorità penitenziarie israeliane negano ma di sicuro non può ricevere visite o comunicare con l’esterno. Molte volte durante i suoi 22 anni di carcere aveva delineato una formula per unire le varie organizzazioni palestinesi perché si potessero presentare unite a un’eventuale negoziato con Israele.
“Fino a quando i palestinesi sono divisi tra Hamas, fondamentalisti islamici contrari all’idea stessa di uno stato ebraico e l’Autorità nazionale Palestinese è inutile, impossibile, parlare di un futuro di pace”, è sempre stata la linea di Netanyahu e di altri governanti israeliani. Divide et impera, l’antica formula latina, è sempre valida. Netanyahu e i suoi seguaci avevano favorito la crescita strategica di Hamas nella striscia di Gaza e, in maniera meno riuscita, anche nella Cisgiordania occupata.
Oggi Netanyahu parla di un mondo palestinese senza Hamas ma la maggioranza degli osservatori internazionali concordano sul fatto che il movimento islamista, nonostante l’uccisione di migliaia dei suoi militanti e della distruzione della maggior parte del suo arsenale, è ormai parte integrante della società palestinese e lo sarà ancora per decenni.
L’altro giorno la delegazione israeliana a Doha per i negoziati indiretti con Hamas è tornata a Tel Aviv mentre a Gaza le forze armate israeliane continuano le operazioni militari soprattutto nelle zone settentrionali della striscia. Netanyahu continua a ripetere che prima o poi ci sarà l’assalto a Rafah e a “quello che resta di Hamas”. Parla soltanto di una breve pausa nei combattimenti per motivi umanitari e per la liberazione degli ostaggi israeliani.
“Siamo ancora lontani da un accordo. Israele – sostiene Hamas – non accetta la fine delle operazioni militari; limita a duemila al giorno il ritorno dei gazawi alle loro case o ai ruderi; per ogni ostaggio rilasciato è disposto a liberare soltanto cinque detenuti palestinesi e vuole deportare i detenuti con condanne lunghe fuori dal territorio palestinese”.
Finora, per quanto emerso dal segreto delle trattative, il nome di Barghouti è stato fatto più volte e, più volte, Israele avrebbe risposto con un secco no a una sua eventuale liberazione. Il timore della moglie e dei dirigenti palestinesi è che dopo 22 anni di detenzione possa morire in carcere come avvenuto in questi ultimi mesi ad altri tredici detenuti per i quali le autorità israeliane hanno dichiarato il decesso “per cause mediche”.
In un’istanza inviata al procuratore Avigdor Feldman, Barghouti ha dichiarato di non ricevere cibo in quantità adeguata, di esser costretto a dormire sul pavimento e di “esser stato ripetutamente picchiato mentre era bendato, umiliato, trascinato nudo per terra in presenza di altri detenuti”.
Marwan Barghouti fu arrestato la prima volta a 18 anni, nel 1978, e condannato a sei anni di detenzione. Imparò l’ebraico in carcere, studiò storia e scienze politiche all’università di Bir Zeit, nella Cisgiordania occupata, e fu tra i fondatori di Shabiba, l’organizzazione giovanile di Fatah nei Territori, particolarmente attiva in quell’ateneo negli anni Ottanta. Emerse come figura carismatica nella Prima intifada (1987-1993) e venne deportato in Giordania nel 1987 con la moglie e i due figli: la famiglia restò in esilio per sette anni e rientrò in Cisgiordania nel 1994, dopo la firma degli Accordi di Oslo.