martedì 3 Dicembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

IMMIGRATI / Ma nel nostro Paese esiste il dio degli esuli?

Un luned in una questura dell’Emilia nel giorno dei permessi di soggiorno. Primo pensiero: “È incredibile che ci sia gente disposta a rischiare la vita per arrivare nel nostro sciagurato Paese, che manda via i suoi giovani, offende le intelligenze, promette soluzioni e in realtà offre sempre poco, tolta l’unica vera religione locale, quale il cibo, il vino e i suoi riti costosi”. Ecco il racconto. A voi i commenti.

di Sara Di Antonio

E oggi siamo davanti alla legge. Con quel senso di attesa e di lieve austerità che si avverte quando si entra in un tribunale, in un ospedale, in un luogo dove l’esito della nostra uscita non sarà stabilito da noi. Persone di ogni parte della Terra si sono riunite qui, di lunedì, perché è il giorno dei permessi, delle foto segnalazioni, delle promesse e degli appuntamenti.

Le lingue parlate vanno dall’arabo all’urdu, più l’italiano stentato di molti, troppi, quando cercano di farsi capire tra loro, usando una terza lingua, la lingua veicolare, che un tempo era l’inglese, per i più anziani era il francese, e oggi è un incredibile e strampalato idioma mai sentito finora.

Ogni tanto questo vociare continuo è interrotto dall’accento di vago sapore partenopeo del questurino, o dalla saggezza tutta impostata del funzionario importante, bravo; oppure dal francese in salsa africana parlato dalla mediatrice culturale (ma ce n’è uno che parla albanese, benissimo, e alcune delle lingue slave).
Il tempo si dilata, per sempre, l’attesa è sempre lungo le scale di metallo, fredde, in paziente silenzio, con la pace di chi ha sopportato ben altre file, ben altre burocrazie e traversie, prima di venire qui. Io saluto, ci sono alcune operatrici delle comunità per minori, le conosco tutte, sono piccole sentinelle della notte che accompagnano ragazzi imbronciati, come il mio, oppure arabi sorridenti e infidi.
Ognuno alza la voce, si fa avanti per farsi vedere, ma lentamente ognuno viene respinto e poi richiamato, arriva il proprio turno, tra le parole ospitalità, raccomandata, rinnovo del permesso.
È incredibile pensare che ci sia gente disposta a rischiare la vita per arrivare nel nostro sciagurato Paese, che manda via i suoi giovani, offende le intelligenze, promette soluzioni e in realtà offre sempre poco, tolta l’unica vera religione locale, quale il cibo, il vino e i suoi riti costosi.
Sempre più cinici, spenti, gli italiani ignorano che ogni giorno, ogni mattina, ci sono schiere di persone che chiedono una casa, un lavoro, uno dei pochi che non può essere cancellato dall’intelligenza artificiale: e che spesso ha a che fare con il pulire, sgrassare, lavare un anziano, saldare, usare il tornio.
Io il tornio l’ho studiato in terza media e non me lo ricordo proprio, pensavo che fosse una vestigia del passato, quando Marx ci parlava dell’alienazione del lavoratore, ricordate? Ma poi ci siamo detti che gli operai non esistono più.
E invece qui c’è puzza, puzza di cucina e di fabbrica, così come una grande dignità. La dignità di questi poliziotti svelti, che neanche sospirano, neanche, quando una persona, l’ennesima, chiede informazioni con un foglio in mano o un figlio in braccio. “Vai a farti un giro e ritorna”, a un certo punto dice uno, e come una capra silenziosa l’uomo si gira e se ne va.
Io sono qua, con un ragazzo nero preoccupato al mio fianco – Noel, del Camerun, del quale sono tutrice,  e un bambino africano di fronte a me che dorme nel passeggino e che sarà straniero fino ai diciott’anni. Non so se esiste un Dio degli esuli, o degli immigrati, probabilmente è lo stesso di chi non trova pace, come me.
“Anche voi per le impronte?” dice uno, mentre resto sulla mia sedia di metallo rotta, di sgambescio, e prego in silenzio, silenziosamente prego, con tutti loro.

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