martedì 3 Dicembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

IN MORTE DEL CAVALIERE

Nelle ore dell’ipocrisia e della memoria corta, una mezza verità è uscita, magari senza volerlo, dalla presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, che ha riconosciuto a Berlusconi la capacita di “plasmare il suo amato Paese”. Perché la grande vittoria di Silvio B. che si sta celebrando assieme alla sua morte, sta tutta qui.

Non è stata vittoria politica, né del tutto imprenditoriale, né sotto il profilo dell’umana competizione: è stata sociologica. Ha vinto lui, riuscendo a solleticare e a far venir fuori in milioni di italiani i comportamenti e le idee che sono oggi il riflesso delle nostre vite.

“Chi è il più bello e intelligente del reame?” Ce lo immaginavamo così al risveglio, a porre allo specchio l’unica domanda fondamentale per il suo ego, che avrebbe dovuto rimandargli indietro la sola parola, Io, che avrebbe potuto sopportare senza entrare in confusione o, peggio, senza ridurre a brandelli il suo abito mentale, cucito con una spropositata e alta concezione di sé stesso.

Silvio B. di pregi ne ha comunque avuti. Per come li può notare chi lo guarda da fuori. Pregi minori rispetto al contesto generale. Ad esempio, la sua generosità. Non era lo spilorcio che accumula miliardi e potere e li tiene stretti a sé. Li elargiva. Lo immaginavamo, forse perché il personaggio richiedeva proprio questo, pronto ad aiutare gente in difficoltà, a dare una mano, a mettere mano al portafoglio e a farlo sapere in giro. Diverse le testimonianze al riguardo.

Cosa che riservava, però, anche ai suoi vizi e alle sue debolezze. Altrimenti non avrebbe potuto permettersi di fare ciò che poi ha fatto: divertirsi parecchio, avere molto, avere finanche a disposizione, al minimo cenno, la giovinezza, il fascino e lo sfacciato sex appeal di tante altre persone, da leggere olgettine, grazie anche a maggiordomi e servi di corte che da sempre affollano, perché indispensabili, la reggia dei nuovi re. Lui lo era un re, con una corona incastonata di soldi, giornali, televisioni e potere.

“E’ riuscito a plasmare il suo amato Paese” con un mossa semplice ma geniale: mostrandosi al mondo così come il mondo voleva che lui si mostrasse. Ha perseguito momento dopo momento il suo modo di intendere la vita, gli affari, l’amicizia, la politica, l’amore che, come i salmoni che risalgono la corrente, non era quello che generazioni dopo generazioni hanno tentato di imprimerci padri, insegnanti, intellettuali, maestri del pensiero e persone perbene. Ha vinto perché quest’ultimi, affascinati, hanno voluto perdere. In altre parole: abbiamo voluto la nostra sconfitta, che altro non è che un ridimensionamento delle nostre virtù civiche.

Nel caso del suo sfrenato esibizionismo, che culminava sempre in allusioni sessuali tipiche dei viveur da balera, c’è da considerare la tenzone a cui Silvio B. amava partecipare: le donne e la relativa conquista con l’arma del fascino irresistibile del denaro e delle enormi disponibilità. Come fare a opporsi?

Nell’inchiesta sulle cene eleganti e del bunga bunga c’è un elemento di vero scandalo passato in secondo piano: il comportamento di alcuni famigliari delle favorite ammesse a corte. In una conversazione, in particolare, si sente un genitore che dopo aver atteso il ritorno all’alba della figlia da una cena elegante le chiede quanti soldi ha trovato nella busta che le aveva consegnato il ragioniere di Arcore. “Cinquemila euro”. “No, dovevi fartene dare diecimila” la sgrida il padre.

Capito? Non c’era nulla da plasmare in un adulto del terzo millennio, moderno ma avido. C’era tutta la predisposizione d’animo necessaria a pagare le bollette e i capricci. Altro che lavoro, educazione, sobrietà, rigore e altri valori della sinistra triste e pallosa. Ma plasmare la coscienza di un Paese era parecchio più impegnativo. E qui, il Cavaliere ha messo in mostra uno dei lati discutibili del suo talento.

Poteva scegliere tra due strategie: il ragionamento suadente con cui convincere gli altri, oppure fare terra bruciata intorno a chi osava mettersi di traverso sulla sua strada. Come ha brillantemente scritto e ricordato Nanni Delbecchi: “E’ inutile, mi disse una volta Cesare Garboli, che i capi della sinistra tengano sul comodino i libri di Machiavelli, e li studino, quando dall’altra parte c’è uno che Machiavelli lo è” . Il Cavaliere ha scelto il manganello mediatico con cui dare addosso all’avversario, anche a coloro che in queste ore si affannano a manifestare dolore per la grave perdita della democrazia italiana.

Lui ha scelto il modo più sbrigativo, ma che già aveva in casa, per cambiare il costume degli italiani, abitudini, consumi e linguaggio. E se l’è presa, l’Italia. Con l’ossessivo ricorso a slogan o a frasi che entravano nel nostro immaginario senza che significassero qualcosa, qualcosa di vero e di provato. Di profondo neanche a parlarne.

Non aveva solo una pistola – Giorgio Bocca, ricorda Pino Corrias, si chiedeva “di che cosa ha paura questo palazzinaro sconosciuto? – ma tanti manganelli nascosti nei microfoni dei suoi giornalisti, inviati e commentatori,  prima a Mediaset, poi anche nella tv di Stato.

Appena qualcuno osava accennare a quel molto di riprovevole presente nel suo curriculum e negli atti processuali, zac, partiva la controffensiva mediatica, fatta di dileggio, frasi caricaturali, perfino del colore dei calzini, con l’estrapolazione dal contesto generale di particolari secondari, ininfluenti, utili però a mettere in cattiva luce il malcapitato. La parte per il tutto. E il tutto veniva dimenticato.

La morte, comunque, cancella tutto questo. Lo si sa e lo si dice da sempre. Ma era impensabile il livello tale di piaggeria, beatificazione e ipocrisia toccato ieri e oggi dai media. E’ un po’ come se gli eredi, collaboratori e dipendenti vari si fossero arrogati il diritto di stabilire e accettare il livello del dolore e del cordoglio da mostrare, come se fosse acceso un applausometro al contrario.

Nel caso del Cavaliere, il sistema dei media assoggettati da anni a questa logica non può consentire che ci sia un dolore sincero e, soprattutto, intimo. Dev’essere ostentato, gridato e soprattutto mostrato a vantaggio di telecamera con tanto di lacrime e, se possibile, con la faccia intristita dalla perdita. Ma ieri sera guardando le tv e i social sembravano le facce meste di chi ha perso, sì, una persona indubbiamente cara, ma anche utile per sé e per gli amici. E’ facile prevedere che una simile atmosfera non cambierà nelle prossime ore. Il processo di beatificazione con tanto di omissioni e dimenticanze andrà avanti, anzi sarà amplificato. A questo punto, però, non resta altro da dire se non un civilissimo No al lutto nazionale e a 7 giorni di stop delle attività parlamentari. E’ veramente eccessivo, è un affronto alla nostra democrazia. E’ troppo.

Piero Di Antonio

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