Terza giornata del Festival, quello dell’Economia Civile, che si pone l’obiettivo di fornire risposte sostenibili, civili e partecipate agli shock e alle sfide globali nell’era dell’Intelligenza Artificiale e delle grandi trasformazioni sociali. ll sistema sociale ed economico in cui viviamo è andato oltre i propri limiti e l’economia civile indica una possibile via d’uscita che ha in sé una caratteristica fondamentale: la soluzione non può essere calata dall’alto.
Con queste premesse la manifestazione diretta dal professor Leonardo Becchetti ha fornito oggi, oltre ai consueti spunti e interventi estremamente interessanti ed esempi del “vivere bene”, l’occasione di un incontro, nella sala dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, con la realtà violenta e crudele dell’Iran attraverso le parole di Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003.
La Ebadi, una donna minuta ma coraggiosa e determinata, ha vissuto e vive nell’esilio il suo essere donna e prima donna di legge in un Paese che discrimina e reprime, facendo ricorso alla violenza della polizia morale e dei guardiani della fede, qualsiasi forma di protesta e dissenso, anche quelle che camminano sulle gambe delle coraggiossime ragazze di Teheran e di altre città itaniane. Ciò a un anno dalla morte di Mahsa Amini, la studentessa uccisa per il velo fuori posto e la cui morte ha dato l’avvio all’ondata di proteste in Iran.
“Vi prometto che la prossima volta che sarò qui da voi, il regime sarà cambiato, è un processo che ha bisogno di tempo, ma succederà: non credo che ci vogliano più di 4-5 anni – ha detto l’avvocatessa Ebadi – la guerra per la democrazia e la libertà è il nostro dovere iraniano e lo stiamo facendo bene, ma chiediamo all’Europa e all’America di non aiutare i dittatori e l’autoritarismo religioso: permetteteci di fare la nostra guerra e noi la vinceremo, ma voi non interferite” ha aggiunto.
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CHI E’ SHIRIN EBADI
Chi è ce lo racconta Fabio Poletti in questa biografia. —” Anche dal suo esilio londinese la giurista e attivista Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace nel 2003, prima iraniana e prima donna musulmana ad ottenere il riconoscimento, non smette di guardare all’Iran travolto da manifestazioni senza precedenti che stanno facendo traballare il regime religioso. Tanto che sembrano profetiche le parole che pronunciò ad Oslo al momento di ricevere il premio Nobel, quasi vent’anni fa: «La libertà e la democrazia non vengono mai serviti su un piatto d’argento».
In un’intervista pubblicata da Il Fatto il 30 settembre 2022 Shirin Ebadi guarda al futuro che spera prossimo del suo Paese: «Per le strade risuona il grido “Donna, vita, libertà”. Se questo slogan si avvera, il regime è finito. Perché la Repubblica islamica è contro le donne e contro la libertà».
Nel Paese si susseguono gli arresti, la Polizia Morale è a caccia di manifestanti, gli oppositori al regime vengono uccisi in carcere o giustiziati. Ma tutto questo secondo Shirin Ebadi non riuscirà a fermare le proteste: «Le manifestazioni sono molto estese, coinvolgono cento città. Diversamente dal passato, quando la gente si radunava in un solo punto di Teheran, oggi le manifestazioni si muovono e sono più difficili da reprimere. La polizia non ha i mezzi a sufficienza».
Quello che lei vuole davvero è che la comunità internazionale si mobiliti e non lasci il popolo iraniano da solo: «Con altri giuristi ho invocato una commissione internazionale d’inchiesta sulla repressione nel mio Paese. Chiediamo ai Paesi europei di ritirare i loro ambasciatori dall’Iran e di ridurre le relazioni diplomatiche e consolari».
In una nazione islamica dove vige un detto diventato legge secondo cui «la donna vale meno dell’occhio strabico di un uomo», Shirin Ebadi ha vissuto sulla sua pelle cosa voglia dire rivendicare dei diritti e non farsi sottomettere. Nata ad Hamadan, nella parte Nord Occidentale del Paese, il padre Mohammad Ali Ebadi, docente di Diritto Commerciale nella locale università, impone che non ci siano distinzioni tra figli maschi e femmine a casa.
Nel 1948 la famiglia si trasferisce a Teheran. Nel 1965, spronata dal padre che voleva una istruzione adeguata anche per le figlie femmine, Shirin Ebadi si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’università della capitale. Quattro anni dopo, una volta laureata, partecipa agli esami per diventare magistrata. Nel frattempo continua gli studi fino ad ottenere nel 1971 un dottorato in Diritto Privato nella stessa università. Dal 1975 al 1979 ricopre la carica di presidente di una sezione del Tribunale di Teheran, dove si fa riconoscere per le sentenze assai innovative in materia di diritti sia verso le donne che i bambini.
Nel 1979 viene proposta come dirigente del Tribunale, ma la sua carriera subisce un improvviso stop, con il ritorno dall’esilio parigino dell’ayatollah Khomeini che impone la legge islamica e il divieto alle donne di avere ruoli professionali di rilievo. A Shirin Ebadi viene proposto di diventare segretaria della cancelleria della sezione di tribunale che aveva presieduto fino a quel momento.
In seguito alle sue reiterate proteste, le concedono una collaborazione esterna al tribunale con un non meglio definito ruolo di “esperta di legge”. Shirin Ebadi rifiuta ogni proposta e limita il suo impegno alla pubblicazione di libri dove affina il suo pensiero: «Se i diritti umani non sono sanciti dalla legge o attuati dagli Stati, le persone non avranno altra scelta se non quella di ribellarsi contro la tirannia e l’oppressione, come si riflette nel preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani».
Con la morte dell’ayatollah Khomeini la sua condizione cambia di poco. Solo tre anni dopo Shirin Ebadi ottiene l’autorizzazione ad aprire un proprio studio e ad esercitare come avvocato. Nel 1994 è tra i fondatori di Society for protecting the child’s rights, un’associazione che si occupa della difesa dei diritti dei minori e con cui continua a collaborare anche dall’esilio.
Ma il suo impegno in difesa dei diritti umani è a 360 gradi. Il suo studio legale si occupa in particolare degli oppositori al regime spesso ingiustamente incarcerati con accuse false e inesistenti. Shirin Ebadi è il primo avvocato a far sedere al banco degli imputati esponenti del Vevak, i servizi segreti iraniani del Vezarat-e Ettela’at va Amniat-e Keshvar, spietati come gli agenti della famigerata Savak, l’intelligence dello Scià di Persia Mohammad Reza Pahlevi.
Tanto attivismo è inviso al regime. Nel 2000 Shirin Ebadi viene accusata di aver diffuso un video contenente la confessione di un fondamentalista islamico, che ammetteva di essere al soldo dell’ala conservatrice del governo per organizzare spedizioni violente nelle manifestazioni, allo scopo di intimorire i moderati. Per questo viene arrestata e tenuta in carcere per 22 giorni.
Non trovando niente di meglio l’avvocatessa viene accusata del reato di disturbo della quiete pubblica, che le valse la spropositata condanna all’interdizione e alla sospensione dell’attività di avvocata per cinque anni. La condanna fu in seguito ridimensionata ma il processo ebbe un seguito internazionale, come mai avrebbero voluto gli esponenti del regime iraniano.
Il 10 ottobre 2003 a Oslo il comitato per il Nobel annuncia di averle conferito la massima onorificenza, il Premio Nobel per la Pace. È la prima volta che il Nobel viene conferito a un cittadino iraniano. Ed è anche la prima volta per una donna musulmana. Le motivazioni degli accademici norvegesi sono il riconoscimento del suo lavoro quasi trentennale, come si evince dalle parole di Mole Mjoes, il presidente del Comitato norvegese per il premio Nobel: «Il Comitato del Nobel è lieto di premiare una donna che fa parte del mondo musulmano. Una donna che non vede conflitto fra l’Islam e i diritti umani fondamentali. Per lei è importante che il dialogo fra culture e religioni differenti del mondo possa partire da valori condivisi. La sua arena principale è la battaglia per i diritti umani fondamentali, e nessuna società merita di essere definita civilizzata, se i diritti delle donne e dei bambini non vengono rispettati. È un piacere per il comitato norvegese per il Nobel assegnare il Premio per la Pace a una donna che è parte del mondo musulmano, e di cui questo mondo può essere fiero, insieme con tutti coloro che combattono per i diritti umani, dovunque vivano». Il 10 dicembre 2003, alla cerimonia di consegna del Premio Nobel per la pace, ad Oslo davanti a re Harald V di Norvegia, Shirin Ebadi usa parole che sembrano scritte anche per la situazione attuale in Iran: «La libertà e la democrazia non vengono mai serviti su un piatto d’argento». Poi annuncia di devolvere il premio in denaro di 10 milioni di corone, pari a 1 milione e 200 mila euro, alle organizzazioni umanitarie del suo Paese. Per sé, dice, terrà solo il diploma con il conferimento del premio e la medaglia consegnata dal re norvegese.
Quanto sia fiero il regime iraniano di questo Premio Nobel per la Pace lo si vedrà in pochi anni. Nel dicembre del 2008 il Defenders of Human Rights Center che aveva fondato nel 2002 per dare assistenza legale pro bono a dissidenti e oppositori, promuovere i diritti umani e impedire le esecuzioni capitali dei minorenni, viene chiuso dal regime con un blitz. E nel novembre del 2009, agenti dei servizi segreti Vevak fanno irruzione nella sua casa di Teheran. Davanti ai due figli picchiano il marito.
Al termine della perquisizione gli agenti se ne vanno portando via la medaglia del Nobel per la Pace che a tutt’oggi non le è stata ancora restituita. La perquisizione è dovuta ad un altro procedimento farsa aperto contro Shirin Ebadi, in questo caso è accusata di non aver pagato al fisco 410 mila dollari in tasse arretrate, per il Premio Nobel ricevuto.
Shirin Ebadi, che si trovava da giugno a Londra, in esilio per non sottostare a quel mandato di cattura infondato, commenta in modo assai amaro: «Si tratta di un’accusa pretestuosa visto che la legge fiscale iraniana stabilisce che i premi sono esentasse. Se trattano così una persona ad alto profilo come me, mi chiedo come si comportano di nascosto con uno studente o un cittadino qualunque».
La risposta è oggi sotto gli occhi di tutti. I suoi colleghi di Teheran le impongono di non far ritorno nel Paese: «Ci sei più utile fuori». Alla fine del 2009 la raggiungono a Londra anche il marito e i due figli. Da allora Shirin Ebadi non ha più fatto ritorno a Teheran. Ma ora forse è solo questione di tempo. (Fabio Poletti)