venerdì 22 Novembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

2024: CAPIRE IL DOLORE

— La lettura dei giornali ripropone guerra e distruzione. L’informazione si sta restringendo a una matematica del dolore  e della morte, con le micacce di sempre: deportazione, uccisioni, attentati, intolleranza, sempre più crateri provocati da bombe ipertecnologiche e soprattutto la volontà di creare un deserto per poi chiamarlo pace. Potrebbe confortare,  riproporre e rileggere in questo inizio d’anno le considerazioni sul bisogno di ascoltare più il cuore che privilegiare gli istinti. Attraverso le sagge e vissute parole di grandi pensatori è possibile augurare un anno diverso, basta prestare attenzione a ciò che ci dicono e ci consigliano di fare. Nel 2024 sarebbe un primo grande risultato “capire il dolore” che ci circonda. —

di Piero Di Antonio

— Nulla è paragonabile agli orrori della guerra e del terrorismo. Il male si insinua, poco alla volta, nelle nostre vite fino a vederlo esplodere in atti crudeli, ai quali nessuno di noi ricorrerebbe. Non è auspicabile neanche la scelta che si è costretti a fare in qualsiasi discussione ci si avventuri: stai con Hamas? sei un terrorista. Stai con Israele? sei un fascista.

E’ il preambolo che deve precedere qualsiasi ragionamento o qualsiasi pensiero che si ha intenzione di condividere in uno scritto. Quasi un’imposizione. Tattica vecchia come il mondo, ma in tanti, però, finiscono per esserne travolti. Stessa cosa avviene se si tenta di afferrare e comprendere cause e ragioni degli eventi, in special modo se tragici.

E la verità? Ma quella non esiste, non è assoluta. Vero, ah se non è vero… ma fissarne alcune parziali è salutare. Fa bene alla nostra salute mentale e rafforza una convinzione che molti hanno smarrito: pensare al ragionamento, ai fatti, alle situazioni, ai cicli storici e alle sue eredità che camminano sulle gambe dei nostri contemporanei, e non colpire e ferire il ragionatore per smentirli o renderlo inoffensivo.

Ma poi, vale davvero la pena infilarsi per cercarla, la verità o parte di essa, in questa selva di accuse, di luoghi comuni ripetuti fino all’ossessione, di frasi fatte e tendenziose, di spregevoli tatticismi politici e giornalistici, di campagne di stampa con il sottostante portato di odio, disprezzo o di presunzione nel vederti indicare l’unica strada per essere considerati uomini giusti?

Vagare in questa selva ha il solo scopo di far digerire crudeltà e nefandezze che altrimenti non possono essere svelate e gridate al mondo. Nessuno deve sapere che cosa c’è nella profondità delle vicende umane. Deve accontentarsi di una vulgata piatta, orizzontale. Si è costretti a infilarsi in un labirinto senza avere in mano, però, il filo che consente di venirne fuori integri.

Si è costretti a stare sulla difensiva, a tenersi dentro le certezze maturate osservando le azioni e pesando le parole. Non è concesso il tempo di riflettere; il significato di fondo delle affermazioni viene nascosto negli incisi delle frasi che spesso si concludono con verità che hanno la stessa presunzione delle tavole della legge.

L’attacco di Hamas a Israele ci ha provocato ulteriore stress. La crudeltà e la facilità con cui vengono ammazzati e decapitati ragazzi e ragazze, donne e neonati, intere famiglie nei kibbutz, non appartengono al nostro mondo. Nessuno di noi ricorrerebbe a simili azioni. Che senso ha, quindi, chiederci e chiedere: sei con Israele o con Hamas? Si vuole forse equiparare l’interlocutore ai terroristi? Si vuole forse affibbiare l’accusa di antisemitismo?

Mettiamo da parte questi preamboli intrisi di ipocrisia, lanciati per svilire il ragionamento di chi fonda il pensiero, invece, proprio sulla volontà di capire. Quando si è stressati, in genere, si pensa a una vacanza in qualche paradiso del mondo. La mente ha bisogno di stare in mezzo al verde o al blu o in qualche silenziosa baita delle Dolomiti. Ha bisogno di respirare e chiudere per un attimo gli occhi.

Ma se non possiamo permettercelo? Bisogna ricorrere a qualcuno o a qualcosa che  sappiano indicarci una via nuova, una meta. Non a un’agenzia di viaggi, ma a una biblioteca, una libreria, un libro, uno scrittore, una storia, un testimone dei tempi e delle vicende umane. Alla fine potremo riaprire gli occhi e vedere finalmente le cose con maggiore distacco e senza ricorrere alle liturgie del conformismo.

Avventurarsi nel conflitto israelo-palestinese è faticoso. Si entra in un reticolo, nella tela del ragno. Qual è allora il nostro vero pensiero? che cosa si vorrebbe? Semplice, ma pochi lo dicono. Sul mondo, da secoli, si è affermato, e non da oggi, il bisogno di una religione, di un dio a nostra immagine, e di affidare l’educazione a principi scolpiti nei cosiddetti libri sacri.

Prendiamo l’Iran. Una gang di persone si arroga il diritto di vita e di morte su milioni di persone che ambiscono a una cosa che non possono capire: la libertà, che noi vediamo nella democrazia. Mai sfiorata dal dubbio che se migliaia di ragazzi e ragazze protestano per conquistarla sfidando la morte, qualche problema con la verità questa banda dovrà pur avercela. In quale libro stanno scritti i precetti che, in nome del loro dio (beninteso, migliore e più buono di quello degli altri) lanciano assieme a pietre e proiettili? Il mondo occidentale, perché è a noi che la meglio gioventù iraniana guarda, deve far sì che questa cricca venga resa inoffensiva e marginale.

Il problema non sta a Teheran, ma a Qom, la città di Komeini, il centro del conservatorismo religioso e politico di tutto l’Iran. E’ lì che bisogna far vincere il concetto di laicità. E’ lì che va tolto il vero potere. E’ lì che si vince sulla drammatica repressione, sulle torture di ragazze che reclamano una cosa semplice e naturale: la libertà.

Una sola democrazia in Medio Oriente, Israele, non basta. E quanto ad Hamas, c’è l’urgente bisogno che i palestinesi prigionieri nella Striscia di Gaza isolino fanatici e terroristi, selezionino una nuova classe dirigente per darsi una forma democratica. E’ difficile stando sotto il tallone dell’occupazione, ma è l’unico modo per uscire da una doppia oppressione: i coloni d’Israele da una parte e Hamas in casa propria.

Se la Palestina piange, però, Israele non ride. Tel Aviv ha i suoi problemi. L’estrema destra religiosa ha preso il sopravvento nel governo e Netanyahu ha le sue gravissime responsabilità. Sarà lui la prossima vittima eccellente dell’attacco terroristico del 7 ottobre. Prima o poi dovrà togliere il disturbo perché è inviso all’opinione pubblica come mai lo è stato in passato un primo ministro d’Israele. E’ stato l’unico a subire l’umiliazione dell’ammutinamento di alti gradi dell’Esercito e a scatenare la gigantesca mobilitazione del suo Paese contro le sue riforme della giustizia. Per salvarsi.

E l’aiuto, ma guardate che combinazione, gli viene proprio dalla destra religiosa e dai coloni, dagli ortodossi duri e puri che, per dirla con franchezza, passano le giornate a pregare per non sottostare, unici esentati, all’obbligo della leva militare per tre anni. L’opposizione, la stampa, l’opinione pubblica israeliana lo vogliono fuori dal governo.

Quando il fanatismo religioso si insinua nei gangli vitali della società avvengono cose brutte e indicibili, una comunità guarda in cagnesco l’altra comunità; il vicino di casa non è più un amico prezioso, bensì un nemico. Cose già viste tra serbi e croati. Quindi non è sufficiente  neanche la formula “due popoli, due Stati”. Anche gli Stati si fanno la guerra.

C’è bisogno di una pacificazione degli animi, non scritta in accordi di pace. Una pace che nasca dalle persone di buona volontà che abbiano il coraggio di accollarsi sulle spalle il peso di un percorso verso la coesistenza. Il fanatismo religioso non fa altro che dispensare veleno nella società.

A sentire certe dichiarazioni di sacerdoti ultraconservatori, patriarchi e iman si resta basiti: chi inneggia alla guerra, chi bacia le mani dell’assassino che ha appena finito di massacrare dei civili o decapitare bambini, chi esorta a sopprimere l’infedele, chi ruba libertà e dignità agli altri in nome della Bibbia e di libri simili.

Forse un appiglio contro l’assurdità di chi si erge a condottiero delle anime sta nello snobbare e allontanare ciarlatani, affabulatori, politici e religiosi di mezza tacca, arruffapopoli, demagoghi e servi che, per dirla con Marc’Aurelio, usano le parole per rendere i fatti vaghi e confusi. Per non farti uscire dalla selva, per farti rimanere incastrato in quel reticolo.

La speranza è nel soccorso di Camus quando – già nel 1946, a guerra appena finita, affrontava i sintomi della crisi dell’uomo e ci diceva che “il dilagare del terrore è conseguenza di una degenerazione dei valori tale per cui un uomo o una forza storica non sono stati più giudicati in funzione della loro dignità, ma in funzione del loro successo”. La soluzione che ci offre è quella di “ritrovare la libertà mentale”.

La crisi dell’uomo, quindi, è prodotta dall’impossibilità della persuasione. “Abbiamo scoperto che ci sono uomini che non è possibile persuadere. Una vittima dei lager non aveva alcuna speranza di poter spiegare alle SS che la picchiavano che non dovevano farlo”. Come possiamo disarmare delle proprie certezze un terrorista? Forse cominciando a estrometterlo dal potere, anche di quello che esercita, purtroppo, sulle anime di parecchi palestinesi.

Oggi quel che conta non è rispettare o risparmiare sofferenze, ma far trionfare una dottrina. Già dopo la seconda guerra mondiale si parlava di un’Europa che conosceva soltanto la solitudine e il silenzio. Oggi, come allora, ci è concesso un’alternativa: essere vittima o carnefice.

E ci soccorre ancora una volta Albert Camus: “Se non si crede a nulla, se nulla ha senso e non possiamo affermare alcun valore, allora tutto è permesso e nulla ha importanza”.

Uscire più forti e con animo rasserenato dal labirinto degli eventi in Israele può aiutarci il saper cogliere gli infiniti aspetti, i livelli e gli scontri che vedono contrapposti due popoli e due esistenze su un’unica terra. Perché il Medio Oriente è un apeirogon, un poligono dal numero infinito di lati e diverse lunghezze.

Ce lo ricorda il romanzo di Colum McCann, “Apeirogon” (Feltrinelli), quando racconta e descrive il cambiamento della visione del mondo, della vita e della guerra di Bassam, palestinese, e Rami, israeliano, entrambi vittime di tragedie: la perdita delle figlie uccise, una, da un proiettile di gomma, l’altra, da un kamikaze.  Vengono a conoscenza del rispettivo dolore, diventano amici per la pelle e decidono di usare il loro comune dolore come arma per la pace. Due uomini divisi dal conflitto, riuniti dalla perdita.

Pagine che riscaldano il cuore, che spandono gioia e speranza, che allontanano i fantasmi della morte, del cinismo e della degenerazione dei valori che stanno alla base di qualsiasi atrocità e del meccanismo disumano che li regola.

Meglio di qualsiasi descrizione delle conseguenze di una perdita, resta ciò che Bassam scrive a Rami: “Una delle caratteristiche principali del dolore è che prima di tutto esige di essere sconfitto, poi compreso”. Quindi, il nostro primo atto è comprendere il dolore della perdita e quello provocato dalla cieca violenza. Poi scoprire, attraverso le parole del poeta persiano Rumi, che “il mio dolore e il suo dolore: lo stesso dolore”. Infine il suo messaggio di speranza: “Ben oltre il giusto e lo sbagliato c’è un campo, ti aspetterò la’”. Parole che da mille anni, purtroppo, continuano a restare in balia del vento.

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