mercoledì 27 Novembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

LE FOTO FANNO LA STORIA

di Michele Mezza *

Nella civiltà del video il giornalismo sta vivendo una dittatura della fotografia. Sembra proprio questo il modo in cui la professione reagisce alla minaccia di omologazione digitale e di subalternità alla tecnocrazia dei processi di automatizzazione.

Il proiettile che ha poi perforato il lobo di Trump, fotografato dal fotoreporter del New York Times Doug Mills, (nella foto sopra, premiata con il Pulitzer) con una macchina capace di fissare lo spostamento d’aria che precede l’impatto della pallottola, ci mostra esattamente il decimillesimo di secondo in cui si combinano la capacità di trovarsi immerso nell’evento, grazie alla potenza di un sistema editoriale che mette i suoi collaboratori in condizione di gareggiare con ogni tipo di scenario, con l’abilità tecnologica che permette appunto di riprendere la traiettoria di uno sparo. Sono due condizioni tipiche di un artigianato professionale di altissimo livello, riservato a poche realtà professionali.

Per essere presenti, in prima fila in Pennsylvania, i team degli inviati del New York Times erano stati disseminati, in quella stessa giornata, con la stessa efficienza organizzativa- attorno al fotoreporter si calcola che lavorasse uno staff di circa 30 persone fra l’assistenza in loco e la copertura in redazione- in almeno un’altra ventina di località dove erano di scena protagonisti della politica americana, con un investimento di circa un milione e mezzo di dollari.

La qualità ha questi costi. Questo è anche il backstage dell’altra foto che ha trasformato la cronaca in storia. Quell’istantanea di Evan Vucci (foto sopra), ormai un emblema che simboleggerà questo tratto di nuovo secolo, ci mostra, come un gruppo scultoreo, l’abbraccio degli agenti della scorta a Trump, che sanguinante, sullo sfondo della bandiera a stelle e strisce, con il pugno chiuso scandisce quello che sarà lo slogan della sua imminente campagna elettorale: “Fight, fight!”.

Non meno vale anche per la terza foto (sopra), che scandisce questa vicenda indimenticabile, quella che Paolo Giordano nel suo commento sul Corriere della Sera, indica come l’immagine che riprende l’anima della vittima, la foto di Anna Moneymaker – cognome che tradisce la sensibilità dell’autrice- che documenta forse l’unico istante di quella scena in cui Trump è umanamente vittima, e non ancora geniale fruitore del dramma, accovacciato per terra, con una smorfia se non rassegnata, certo attraversata da un “terrore animale”, scrive Giordano, che lo unisce con un vincolo di istintiva solidarietà a tutti noi.

La sequenza di questi scatti non lascia altro spazio a racconti o video riprese. L’istinto professionale, e il supporto organizzativo, con cui i tre fotoreporter hanno descritto il dramma individuale in corso e l’epilogo politico inevitabile, aiutano a mettere a fuoco anche quale sia oggi la forma, il linguaggio e le condizioni, con cui il giornalismo reagisce alla subalternità tecnologica, cercando una propria strada per competere con la nuova congiuntura culturale.

La massima prossimità alla fonte, con quella sensibilità professionale, frutto di ambizione e fatica, che distingue un cronista da un testimone, e un’organizzazione editoriale che ti consente di essere a tutti gli eventi, e dunque anche a quello topico, in prima fila, con dotazioni tecniche di avanguardia. Questa è la formula che distingue oggi le sezioni dei fotoreporter dei grandi gruppi editoriali dal resto del giornalismo. Ma che, in qualche modo, caratterizza anche quella schiera di free lance che stanno dando nuova linfa al mestiere.

Sarebbe forse utile chiedersi perché innanzitutto i fotoreporter, più ancora degli inviati o dei film maker? Perché sono loro, con le loro potenti macchine, a scomporre, selezionare e renderci il mosaico della cronaca del mondo? Dicevamo meglio degli stessi inviati, sempre più centellinati dalle redazioni che lavorano in remoto, o dei video maker, sempre più in affanno ad inseguire il proliferare dei mille filmati spontanei che germinano in rete.

Da quel primo servizio fotografico giunto al Times di Londra dalla guerra di Crimea nel 1853 a firma David Fenton, ad oggi, quel mestiere è cambiato mille volte. Ma sempre è stato l’emblema delle élite professionali. Un fotoreporter un colpo prima o poi lo fa, mentre migliaia di cronisti o inviati, possono vivere una vita professionale ordinaria, senza infamia e senza lode.

Quel mestiere ha sempre anticipato i tempi, si è sempre combinato con la routine redazionale, ma senza mai annullarsi in essa. Un fotoreporter, fin dai tempi eroici di chi seguiva i grandi cronisti di nera, negli anni ’50, o poi li sostituiva con i servizi per le grandi testate come Life, o Epoca in Italia, è stato un artigiano proiettato in una logica professionale di confine fra il mestiere e la tecnica, l’indole e l’organizzazione.

Più le tecnologie del networking avvicinavano gli utenti al campo di battaglia, come abbiamo visto in Ucraina (e invece non abbiamo potuto vedere a Gaza per l’azione di censura preventiva degli Israeliani), più la vecchia cara fotografia si faceva spazio come linguaggio esclusivamente professionale nell’offerta giornalistica. E’ stato un fotografo a documentare la strage di Bucha, come è stato un fotoreporter a spiegare come combattesse il famigerato battaglione Azov nelle viscere della acciaierie Azovstal a Mariupol.

Lo scatto, l’istantanea, nel brusio della rete, è diventato la certificazione di essere sul posto, di aver toccato con mano le fonti, di aver sentito l’odore del fronte. Cosa non sempre sicura nei reportage scritti o video ripresi, dove si combinano fonti di flusso con testimonianze indirette.

La foto, nei linguaggi ipertestuali della rete, dove il testo si intreccia a immagini e video, torna ad essere un corredo essenziale per la narrazione. Una pausa lenta nella frenesia dei files. Un modello narrativo dell’interattività fra testo e immagine per altro tipicamente italiana: nasce proprio nella pancia della nostra letteratura rinascimentale, con Ariosto e Tasso, che per primi completano a metà del ‘500 le proprie opere con un’iconografica nella pagina, in cui il testo rimanda all’immagine per essere compreso, come ci spiega Lina Bolzoni nel suo straordinario libro “Galassia Ariosto” (Donzelli ).

Oggi sembra invertirsi la gerarchia, è la pagina che diventa instabile e provvisoria che integra e arricchisce l’immagine, fonte primaria. Un cambio di sostanza nel codice giornalistico, che comporta una diversa geometria organizzativa e gerarchica nella macchina giornale. Tanto più se poi anche la fotografia viene sminuzzata e scomposta, per essere poi artefatta da sistemi di Intelligenza artificiale.

Dobbiamo chiederci se le invidiabili performance dei colleghi americani siano la dimostrazione che quella è la strada per un giornalismo europeo e italiano, o se proprio quelle grandi prove di organizzazione e investimento siano invece la constatazione che senza quella potenza editoriale si debbano trovare altre soluzioni.

La scelta di essere al comizio di Trump, dicevamo, è stata per il New York Times la semplice conseguenza che quella testata può pianificare una copertura di tutti gli eventi elettorali della giornata con la stessa meticolosa qualità professionale e organizzativa: nelle stesse ore era previsto un comizio della vice presidente Kamala Harris e, in un altro Stato, dei leader al congresso dei democratici. Ma chi, come la stragrande maggioranza delle testate europee, deve scegliere e concentrare le scarse risorse su pochi eventi al mese, come può attrezzarsi per essere comunque sul pezzo, come si dice ? Come assicurare il tappeto di informazioni e scegliere poi dove impegnare il patrimonio professionale della testata?

La combinazione di risorse tecnologiche con il fiuto professionale è la formula che oggi ci consente di stare in campo, senza il gigantismo americano. Ora forse dovremmo cercare di dare più orginalità sia alle une sia all’altro. Le dotazioni tecnologiche devono diventare sempre più esclusiva della redazione, prodotte direttamente alla luce dell’esperienza e delle abilità dei giornalisti, e il fiuto deve diventare anche artigianato più spinto, in cui ad esempio il fotoreportage, sia nella versione cartacea che digitale, dovrebbe entrare nella gamma delle proposte delle testate.

Una nuova generazione di foto cronisti, un nuovo linguaggio che documenti i momenti e non riprenda solo gli ambienti, potrebbe ridare smalto ad un mestiere che deve far quadrare i conti con scarse risorse, usando l’offerta della rete, i dispositivi di Intelligenza artificiale, per non affogare nell’abbondanza degli impegni.

*professionereporter.eu

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