di Sara Di Antonio
— Chi è questa Madonna con i capelli scuri, che gesticola, con le unghie lunghe, rosa, davanti a me? E chi è quest’altra madonnina pallida, ma non assorta, che sta raccontando una storia che non conosco? Probabilmente le mie figlie, credo, ma ieri ho compiuto quarantotto anni – quarantotto, il morto che parla e ti detta i numeri nel sonno, a Napoli – e non ricordo.
Accanto a me c’è un uomo paziente e pacato, uno che non riesce a guardare uno spettacolo senza sbuffare, un esteta, un matto.
E io che sorrido e ringrazio, perché siamo stati in questa meravigliosa locanda di Castelvetro, e scendendo nella taverna in punta di piedi sembrava di essere inquieti ma felici dell’occasione di provare un ristorante Michelin per la prima volta; ma poi subito abbiamo pensato alle nuove occasioni da festeggiare (i 50 anni, un diploma, una laurea) in futuro, in un contesto tutto piccolo borghese, molto privato, che addormenta ma ritempra e rassicura.
Un futuro, che come giustamente sanno Andrea e Francesca, i quali diversamente da noi sono sapienti, andrebbe assaporato volta per volta, in una parola goduto, senza pensieri.
Mai saputo farlo, in questi quarantotto anni che da ieri, chiaramente, sembrano essere volati via e in una parola sciolti; come nei capelli finto biondo di G., la chiacchiera svanita di V., la chitarra alla paesana che mi ricorda una nonna lontana: e che quindi, e di conseguenza, non può che essere assaporata con un rimando, che si attorciglia su noi stessi e sui nostri ricordi, o su ciò che ci sembra di rimembrare o di aver vissuto.
In una parola abbiamo sceso la scaletta, e goduto di un’atmosfera fuori dal tempo, e con due ragazze che infine, tra mille peripezie materne, sanno usare coltello e forchetta, e sorridere al cameriere al momento giusto, in un appiglio di civiltà che mi rappacificano di anni, lunghissimi anni di porte chiuse, se non sbattute, davanti al mio naso incredulo.
E poi compiere quarantotto anni – molto diversi dal morto, il semplice morto dell’anno scorso, il quarantasette, numero sbilenco e infido – significa vedere l’apertura della Porta Santa e sentirsi sì, esattamente, un pellegrino con le scarpe sporche che bussa.
Roma è lontana, lo è pure Tony Effe, con le sue rime grevi e il suo bel faccione che un tempo fu da rubicondo bambino romano, viziato, non troppo ubbidiente, e a cui sempre nostra nonna avrebbe dato un buffetto sulla guancia con quel senso di affetto e di legittimizzazione implicita così difficile oggi da trovare, tra divisioni, sensibilità e femminismi.
Quante storie mentre fuori fa freddo! Infatti l’aria è gelida – non siamo appunto a Roma – e attraverso la Porta santa, nel giorno del mio compleanno, è passata tanta gente, chiedendo grazia, riposo e rifugio dalla tempesta.
Io ho tolto il cappello e ho pensato accidenti, non si diventa grandi per sentirsi così piccoli; ma poi la sera ho guardato queste Madonnine svelte che con le loro facce da volpi sorridevano al cameriere, e mi sono sentita come una donna stanca, ma improvvisamente grata, e ancora lieta, di questa vita.