sabato 23 Novembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

LA STAMPA E IL FANFARONE

di Giampiero Gramaglia
Per la terza volta, il giornalismo liberal di qualità americano, quello per capirci di New York Times e Washington Post, di Cnn e Politico, deve fare i conti con la sua nemesi: Donald Trump, la cui presa sul pubblico ne mette a nudo l’irrilevanza, se non addirittura l’essere controproducenti, cioè l’ottenere l’effetto opposto di quello desiderato. Ecco una cartolina dagli Stati Uniti che ci descrive la situazione della campagna elettorale per le presidenziali di novembre, ovvero lo scontro tra Trump e Biden e il comportamento dei grandi media. Da professionereporter.eu

Nel 2016, la stragrande maggioranza dei media Usa diedero il loro endorsement a Hillary Clinton: Trump vinse, contro tutti i pronostici e contro tutti gli appelli a non votarlo, perché i suoi elettori erano fortemente motivati a sostenerlo, nonostante le smargiassate, le falsità, le promesse palesemente impossibili da mantenere – infatti, nessuna lo fu -; e perché, invece, milioni di elettori sulla carta di Hillary, tranquillizzati dai sondaggi e illusi dai cavalli di frisia dei media, evitarono d’andare a votare per una candidata dell’establishment, una persona di potere, una donna che non piaceva alle femministe.

Nel 2020, la scena s’è ripetuta. I media di qualità schierati compatti contro Trump, che, nonostante quattro anni di fanfaronate e di decisioni sbagliate, prende più voti di quattro anni prima. Stavolta, però, perde, perché, dopo averlo sperimentato, anche quelli con la puzza sotto il naso vanno a votare per Joe Biden, ma soprattutto contro il magnate che dice sempre “io” e mai “noi”.

Adesso, sembra tornato lo scenario del 2016. Trump continua a sciorinare smargiassate e fandonie (la guerra in Ucraina? La farà finire il giorno dopo che sarà tornato alla Casa Bianca; il 7 ottobre? Con lui, non sarebbe mai accaduto), ma mantiene la sua presa sul suo elettorato. Anzi, tre anni dopo l’insurrezione da lui sobillata del 6 gennaio 2021, quando migliaia di facinorosi suoi sostenitori presero d’assalto il Campidoglio per indurre il Congresso riunito in sessione plenaria a rovesciare l’esito delle elezioni vinte da Biden, c’è più gente di prima convinta che le elezioni gli furono davvero rubate.

NYT, WP, altri media non se ne capacitano: da mille giorni ripetono che non c’è prova né traccia delle frodi denunciate dal magnate ex presidente; e che, anzi, ci sono le prove dei trucchi da lui attuati e dei reati da lui compiuti per restare al potere. Alcuni dei quali gli valgono i processi cui è soggetto e che sta cercando di evitare, o almeno di ritardare, con tutto l’apparato di misure dilatorie, che noi italiani abbiano ben imparato a conoscere negli anni della saga giudiziaria berlusconiana.

Trump mette in crisi la mitica oggettività del giornalismo anglosassone, che gli si schiera contro, pur con tutti i crismi delle opinioni separate dalle notizie, e ne fa emergere l’irrilevanza: più i media ne svelano le magagne, più lui va su. E quando, invece, svelano le magagne di Biden, lo azzoppano, perché chi vota Trump non li legge – e, comunque, non ci crede -, mentre chi vota Biden li legge e ci crede.

Compatti contro Trump, ma attenti alla missione di raccontare la verità ai loro lettori, i media liberal non sono teneri con Biden: la fragilità che trasmette; il senso di delusione indotto in chi l’ha votato; le minoranze più tiepide nei suoi confronti – gli ispanici inclinano addirittura verso Trump, che pure dice che “avvelenano il sangue dell’America” -. A Mosca, a Gerusalemme e persino nelle capitali dell’Ue, a Roma e non solo, c’è chi tifa Trump, nonostante, quand’era presidente, abbia detto “Sappiate che, se l’Europa sarà sotto attacco, non verremo mai ad aiutarvi”, parlando alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen; e, ancora, la Nato “è morta, ce ne andremo, la lasceremo”.

Ora, Biden e i media giocano la carta della difesa della democrazia contro il rischio della dittatura. Se Trump dovesse vincere, l’America subirebbe “danni incalcolabili”: ne è convinto l’ex presidente Barack Obama, secondo quanto riferisce a USA Today uno dei suoi più fidati collaboratori, l’ex segretario alla Giustizia Eric Holder. Obama può forse giocare un ruolo chiave verso Usa 2024, offrendo al candidato democratico di 81 anni un ‘ponte generazionale’ verso la generazione Z.

Ma se l’America cui i media di qualità liberal parlano e che Obama cerca di scuotere è un Paese ricorrentemente ammaliato dall’isolazionismo e dall’individualismo c’è poco da illudersi che l’argomento faccia presa. C’è chi parla di un’Unione ammalata di solitudine, di una Nazione zeppa di Alan Ladd, cowboy solitari che, compiuto il loro dovere, cavalcano verso il sole del tramonto: un’epidemia che, secondo le autorità sanitarie, ogni anno porta via tante vite quanto il tabacco.

I giornali, però, non demordono. Un editoriale del New York Times, in sintonia con Obama, avverte che “la rielezione di Trump presenterebbe seri pericoli per la nostra Repubblica e per il mondo… E’ ora d’impegnarsi di nuovo: chiediamo agli americani di mettere da parte le loro differenze politiche, le lamentele e le affiliazioni di partito e di valutare – come famiglie, come parrocchie, come comunità e come individui – la reale portata della scelta che faranno a novembre”.

Il giornale ricorda i “danni duraturi” della presidenza Trump e osserva che una seconda sarebbe ben più pericolosa, senza i freni della precedente, come suggerisce il suo Project 2025. “Trump – si legge nell’editoriale – ha mostrato un carattere e un temperamento che lo rendono del tutto inadatto a ricoprire cariche elevate. Come presidente, ha esercitato il potere con noncuranza e spesso crudelmente, mettendo il suo ego e i suoi bisogni personali al di sopra degli interessi del suo Paese.

Ora, mentre fa nuovamente campagna elettorale, i suoi impulsi peggiori sono più forti che mai – incoraggiare la violenza e l’illegalità, sfruttare la paura e l’odio per ottenere consenso politico, indebolire lo stato di diritto e la Costituzione, applaudire i dittatori – e si vanno intensificando, mentre cerca di riconquistare il potere”.

Per il New York Times, Trump “prepara la vendetta nell’intento d’eludere le restrizioni istituzionali, legali e burocratiche che gli hanno posto dei limiti durante il suo mandato”: è “un uomo che mostra con orgoglio un aperto disprezzo per la legge, le tutele e gli ideali della Costituzione”.

“Le incursioni di Trump negli affari esteri – mette, infine, in guardia il quotidiano – rimangono pericolosamente fuorvianti e incoerenti. Nella sua presidenza, ha mostrato costante ammirazione per i leader autocratici – tra cui Xi Jinping, Vladimir Putin e Kim Jong-un – e disprezzo per i nostri alleati democratici. Mentre era alla Casa Bianca, ha ripetutamente minacciato di lasciare la Nato, un’alleanza fondamentale per la stabilità dell’Europa, che lui considera solo come un drenaggio delle risorse americane; ora il sito web della sua campagna dice, senza elaborare, che intende ‘completare’ il processo di ‘rivalutazione radicale dello scopo e della missione della Nato’”.

Inoltre, “ha annunciato l’intenzione di abbandonare l’Ucraina, lasciando il Paese e i suoi vicini vulnerabili ad ulteriori aggressioni russe. Incoraggiati da un presidente Usa, i leader che governano con pugno di ferro in Ungheria, Israele, India e altrove si troverebbero ad affrontare pressioni morali o democratiche molto minori”.

L’”ossessione Trump” non è un’esclusiva dei media di qualità liberal. Anche quelli conservatori sentono l’handicap del magnate ex presidente e tentano di scovargli delle alternative a destra. C’è chi crede di avere una soluzione: il Wall Street Journal punta tutto su Nikki Haley (nella foto), già governatrice della South Carolina e rappresentante degli Usa all’Onu. Con un editoriale intitolato “Chi ha paura di Nikki Haley?” il giornale della finanza mette in evidenza come il magnate tema una rivale, che è in crescita un po’ ovunque nei sondaggi, che è competente, che non spaventa i moderati.

Scrive il WSJ: “D’’improvviso la campagna di Trump ha fatto una netta svolta. La maggior parte dei suoi attacchi non sono più rivolti a Ron DeSantis, ma ad Haley. L’ex presidente teme chiaramente che si stia delineando una vera alternativa”. “Trump – conclude il giornale, che inclina per Haley – supera il 50% nei sondaggi nazionali del suo partito ed i repubblicani possono decidere di puntare sul caos di un secondo mandato dell’ex presidente, che … si aspetta l’incoronazione. Ma gli elettori hanno voce in capitolo, Iowa e New Hampshire sono noti per sorprendere e Trump si sta comportando proprio come se questo fosse quel che teme”. Un auspicio, più che un pronostico. Ma tra chi invoca la democrazia e chi si rivolge ad Haley, tutti cercano di vedere, o di creare, una speranza oltre Trump.

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