lunedì 25 Novembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

L’abuso economico, sottile violenza contro le donne

di Marina Della Giusta* e Maria Laura Di Tommaso*

— La violenza contro le donne assume diverse forme e ha sempre costi elevati. La violenza economica è un modello deliberato di controllo sulla capacità della partner di acquisire, utilizzare e mantenere risorse economiche. Quali strumenti utilizzare per contrastarla. (da lavoce.info – sito)

I numeri sulla violenza. Stabilire la diffusione di tutte le forme di violenza contro le donne è stata una priorità sin dalla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne adottata nel 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite (articoli 12 e 19) e dalla Convenzione del Consiglio d’Europa del 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul.

Secondo l’articolo 3a della dichiarazione, è “violenza contro le donne” ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà.

A livello mondiale, la violenza degli uomini contro le donne è più alta nei paesi in via di sviluppo, dove le perdite in termini di salute fisica, benessere emotivo e produttività coinvolgono una percentuale maggiore di popolazione rispetto ai paesi industrializzati.

In media, nel mondo il fenomeno ha altissima diffusione e riguarda una donna su tre. In Italia il ministero della Salute riporta dati Istat, secondo i quali il 31,5 per cento delle donne ha subìto nel corso della propria vita forme di violenza fisica o sessuale, in prevalenza da parte di partner o ex partner, parenti o amici.

Per quanto riguarda le statistiche sugli omicidi, sebbene la maggior parte delle vittime siano uomini uccisi da altri uomini, soprattutto nel contesto della criminalità organizzata, quando le vittime sono donne, nella stragrande maggioranza dei casi l’omicidio è commesso da partner o ex partner.

L’ultima nota Istat sulle vittime di omicidio riporta che nel 2021 in Italia sono stati commessi 303 omicidi, 119 dei quali hanno come vittima una donna (il 39,3 per cento del totale). Le persone uccise all’interno di una relazione di coppia o in famiglia sono state 139 (45,9 per cento del totale): 39 sono uomini e 100 donne. Il 58,8 per cento delle donne è vittima di un partner o ex partner (57,8 per cento nel 2020 e 61,3 per cento nel 2019). La percentuale di donne uccise nella coppia o in famiglia è più alta tra le 45-54enni (94,7 per cento) e tra le 55- 64enni (91,7 per cento).

I costi della violenza contro le donne. La violenza sulle donne ha costi molti alti in termini umani, economici e sociali. Ha un effetto negativo sulla salute fisica e mentale delle vittime e dei loro figli, che soffrono di problemi psicologici e comportamentali, ma anche sulla situazione lavorativa, sulla produttività, sulla partecipazione alla vita pubblica; se avviene nel periodo di gravidanza è causa di aborti, bambini sottopeso alla nascita, malattie della madre e anche morte del feto e della madre.

Le conseguenze della violenza sulla salute implicano sia costi diretti (sul sistema sanitario) sia indiretti sul lavoro delle donne, in termini di partecipazione al mercato del lavoro, di stabilità lavorativa, di produttività.

Il costo totale (nel corso di tutta la vita) della violenza è stato stimato pari a 103.767 dollari per ogni donna vittima di violenza negli Stati Uniti; il 59 per cento sono spese sanitarie, il 37 per cento sono perdite di produttività. Il costo calcolato per i bambini esposti alla violenza è di 50mila dollari per bambino negli Usa.

Le risorse economiche hanno un impatto sulla violenza: più risorse meno violenza domestica

La scienza economica teorizza che le risorse economiche a disposizione di donne e uomini (lavoro, disoccupazione, salario o sussidi statali) hanno un impatto sulla violenza. Alcuni modelli teorici indicano che un aumento delle risorse economiche delle donne fa diminuire la violenza domestica perché aumenta il loro potere di contrattazione all’interno della famiglia.

Per esempio, una ricerca su dati inglesi segnala che l’aumento della disoccupazione maschile causa una diminuzione della violenza domestica, mentre l’aumento della disoccupazione femminile la fa aumentare. Un altro studio su dati messicani mostra come le donne che beneficiano di sussidi statali hanno una probabilità inferiore del 40 per cento di essere vittime di violenza.

D’altra parte, altri studi sottolineano invece che gli uomini possono diventare più violenti se si sentono minacciati da una maggiore indipendenza economica delle loro partner. In particolare, una ricerca non trova nessuna evidenza in Africa sub-sahariana di una diminuzione della violenza di fronte a un aumento delle risorse economiche delle donne. Infatti, paesi con poche risorse da destinare alle forze di polizia e al rispetto della legalità, come quelli in via di sviluppo, possono non essere in grado di proteggere le donne nel caso di un aumento della violenza legato a un “empowerment”. Allo stesso tempo, nelle culture con norme sociali che giustificano la violenza contro le donne (per esempio il “machismo”) può essere maggiore la percentuale della popolazione che accetta la violenza domestica.

L’uso della violenza può essere strumentale a ottenere risorse economiche dalle partneesempio r esattamente come, in generale, lo è la violenza tra nazioni. Ad esempio, in India la violenza da parte del partner aumenta quando la donna proviene da una famiglia benestante perché il marito cerca in questo modo di ricavare maggiori risorse (in termini di dote) dalla famiglia di provenienza della moglie (Bloch and Rao 2002).

La violenza economica scaturisce da comportamenti che controllano, sfruttano o sabotano le risorse

La violenza economica discende da un modello deliberato di controllo in cui gli individui interferiscono con la capacità del loro partner di acquisire, utilizzare e mantenere risorse economiche.

Si tratta di comportamenti che controllano, sfruttano o sabotano le risorse economiche di un individuo, compresa l’occupazione. Le tattiche di abuso economico includono l’accesso ridotto ai risparmi e ai beni, il causare deliberatamente l’insicurezza abitativa attraverso il danneggiamento della proprietà o non pagando l’affitto o il mutuo e le interferenze negative con il lavoro e la partecipazione a percorsi educativi.

Per misurare l’abuso economico si fa riferimento in particolare alla “scala di abuso economico” (Sea), che si crea a partire da diverse fonti e da interviste con donne vittime di violenza domestica. La Sea-12 è considerata una misura affidabile e valida dell’abuso economico, che è nettamente diverso dall’abuso fisico, emotivo e sessuale (Stylianou et al., 2013). Le categorie di abuso economico che emergono da questi studi sono tre: controllo economico, sfruttamento economico e sabotaggio dell’occupazione.

Nel controllo economico rientrano varie tattiche: limitare l’accesso alle finanze, rifiutarsi di contribuire finanziariamente per beni di prima necessità o altre voci, limitare l’accesso alle informazioni finanziarie o il coinvolgimento nel processo decisionale finanziario, controllare la spesa delle famiglie.

Sono invece tattiche di sfruttamento economico: uso improprio delle finanze familiari; danneggiamento di proprietà; rubare proprietà, denaro o identità; indebitarsi con la coercizione o in segreto; cacciare la vittima dall’abitazione; usare la ricchezza come arma o come minaccia; vendita di oggetti domestici o personali necessari; limitare l’accesso all’assistenza sanitaria o all’assicurazione; e negare o limitare l’accesso ai trasporti. Infine, le tattiche di sabotaggio dell’occupazione includono tutto ciò che riguarda l’interferenza o l’impedimento del lavoro di una partner.

La violenza economica è fortemente collegata alla violenza psicologica e a quella fisica nel contesto privato e in quello pubblico. Nel contesto professionale, per esempio, Olle Folke e Johanna Rickne (2022) rilevano che i lavoratori appartenenti a una minoranza di genere hanno maggiori probabilità di subire molestie sessuali e sono disposti a pagare circa il 10 per cento del loro salario per evitare molestie, mostrando i costi potenzialmente elevati della vittimizzazione.

Riconoscere l’abuso economico risulta spesso difficile. Corrie e McGuire (2013) suggeriscono per esempio che la diffusione del fenomeno non è ancora del tutto definita, in parte perché le vittime possono avere difficoltà a distinguere l’abuso economico dall’insicurezza economica che sperimentano come donne.

L’insicurezza economica è, senza dubbio, una questione di genere: fattori come la natura di genere dell’assistenza, la sottovalutazione del lavoro retribuito e non retribuito delle donne e la discriminazione della forza lavoro contribuiscono a far sì che le donne sperimentino costantemente nel corso della loro vita risultati sociali ed economici peggiori.

In Italia oltre il 31 per cento delle donne dipende economicamente dal partner o da un altro familiare. Soltanto il 58 per cento ha un conto corrente intestato personalmente, quasi il 13 per cento ne ha solo uno cointestato con il partner (11,6 per cento) o un altro familiare, mentre il 4,8 per cento non ne ha neanche uno (Global Thinking Foundation, 2023). Le donne hanno anche una più bassa educazione finanziaria: un’indagine Ipsos, condotta in collaborazione con UniCredit, indica che il 22 per cento delle donne gestisce le risorse di famiglia, il 31 non se ne occupa e, in generale, la loro competenza economica è nettamente inferiore a quella degli uomini.

Secondo l’indagine WeWorld in collaborazione con Ipsos, pubblicata il 22 novembre, il 49 per cento delle donne intervistate dichiara di aver subito violenza economica almeno una volta nella vita, percentuale che sale al 67 per cento tra le divorziate e le separate. Più di una donna separata o divorziata su quattro (il 28 per cento) ha affermato di aver subito le decisioni finanziarie prese dal partner senza essere stata consultata. A una su dieci il marito o il compagno ha vietato di lavorare.

Infine, il rapporto della rete dei centri anti-violenza D.i.Re indica che tra le denuncianti una su tre è a reddito zero e nonostante nel 2020 sia stato introdotto il cosiddetto reddito di libertà (un contributo di 400 euro al mese per un anno) su 3.283 richieste presentate in quell’anno sono stati erogati appena 600 contributi.

Il divario di genere, come il blocco dei salari del settore pubblico, possono comportare un aumento della violenza domestica

Le variabili economiche contribuiscono dunque al fenomeno della violenza maschile contro le donne, ma anche alla possibilità di ridurla o di mitigarne gli effetti È perciò importante condurre sempre un’analisi di genere di tutte le politiche pubbliche, come si fa in altri paesi europei.

Politiche economiche che hanno un impatto sulla distribuzione del reddito e della ricchezza devono tenere in considerazione anche le conseguenze in termini di violenza contro le donne: ad esempio, quelle che incrementano il divario salariale di genere, come il blocco dei salari del settore pubblico del 2010, possono comportare un aumento della violenza domestica.

Il governo ha appena promosso un piano per l’educazione affettiva e alle relazioni nelle scuole che ha lo scopo di ridurre la violenza degli uomini contro le donne. Sarebbe importante che contenesse anche forme di formazione contro la violenza economica, in particolare favorendo l’alfabetizzazione finanziaria, sulla quale il gap di genere in Italia è molto elevato rispetto agli altri paesi europei.

Combattere la violenza contro le donne richiede interventi molto ampi per identificare e sanzionare i comportamenti non si può prescindere dalla formazione, quella scolastica e quella del personale pericolosi, ma richiede anche e soprattutto interventi per indurre un cambiamento culturale. Servono anche campagne di informazione pubblica su come identificare e comportarsi in situazioni pericolose.

***

* Marina Della Giusta è professoressa di Politica Economica all’Università di Torino, Visiting Professor all’Università di Reading e IZA Fellow. È entrata a far parte dell’Università di Reading nel 2001 dove è stata capo dipartimento dal 2013 al 2016. Le sue ricerche riguardano l’economia comportamentale e del lavoro, con particolare attenzione al genere, allo stigma e alle norme sociali.

* Maria Laura Di Tommaso è professoressa Ordinaria in Economia Politica presso il Dipartimento di Economia e Statistica dell’Università di Torino. E’ Fellow del Collegio Carlo Alberto, e Associate Researcher del Frisch Center for Economic Research a Oslo. I suoi principali interessi di ricerca sono nel campo dell’economia di genere e femminista.

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