Il decreto legge sull’Autonomia differenziata del ministro leghista Calderoli è il passo più importante della legislatura in corso e il più decisivo per le sorti dell’Italia. Pur se contestato da varie parti, il decreto pone però una serie di riflessioni sui ritardi del Sud e sui perché di questa distanza con la parte più ricca del Paese.
Siamo sinceri: nel profondo dell’anima di parecchi abitanti del Nord alberga, spesso dissimulato con frasi di circostanza e politicamente corrette, un rifiuto del Sud. Fatta breve: non vogliono pagare le imposte anche per una terra che in quanto a contraddizioni e arretratezza non si fa mancare nulla. La proposta di legge sull’Autonomia differenziata nasce da questa diffusa convinzione che nel corso di decenni ha portato a una continua richiesta di allentare se non recidere il vincolo dell’eguaglianza tra Nord e Sud. Il disegno di legge, che porta la firma del ministro leghista Roberto Calderoli, attribuisce alle Regioni a statuto ordinario l’autonomia legislativa su materie di competenza concorrente e in tre casi di materie di competenza esclusiva dello Stato. La Regioni possono anche trattenere il gettito fiscale, oggi distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive.
Uno dei punti più contestati della proposta è il finanziamento dei Livelli Essenziali di Prestazione che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Sono i cosiddetti Lep che tutelano i “diritti civili e sociali” di tutti. L’entità di questi finanziamenti andrebbe stabilita, secondo la Costituzione, prima delle richieste di autonomia, in modo tale da avere chiaro di quante risorse ha bisogno ogni Regione richiedente.
I Lep. Secondo il disegno di legge, che dà al governo un anno di tempo per decidere i Lep, le Regioni potranno formulare un’intesa anche senza il decreto del presidente del Consiglio che dovrebbe stabilire l’entità dei Lep, distribuendo così i finanziamenti in base alla spesa storica della regione nell’ambito specifico in cui chiede l’autonomia.
Ed è questo il punto al centro delle contestazioni, e che giustifica il termine di secessione dei ricchi, perché assicurerebbe maggiori finanziamenti alle regioni del Nord, in quanto hanno più risorse e una spesa storica più alta, e meno a quelle del Sud, dove ci sono meno risorse e quindi una spesa storica più bassa. In questo modo, si accentuerebbero ancora di più le disuguaglianze tra le due grandi aree dell’Italia. Inoltre, l’autonomia colpirebbe il sistema scolastico che finirebbe per avere programmi diversi a livello regionale e un diverso sistema di reclutamento del personale e dei docenti.
Questo, in sintesi, ciò che ci dice l’attualità politica. La contrapposizione tra maggioranza di Destra e opposizione di centro-sinistra si va facendo molto netta anche se non pochi dubbi sorgono anche nelle fila della maggioranza con Fratelli d’Italia, il partito della premier Giorgia Meloni, che ha sempre avuto una forte vocazione nazionalista.
Ma al decreto di stampo leghista non è sufficiente contrapporre distinguo di natura politica e costituzionale. C’è bisogno di un’attenta analisi del ritardo con cui il Sud si presenta al cospetto delle innovazioni politiche, sociali ed economiche che i tempi stanno imponendo. Come può essere annullato questo dislivello con il Nord?
E’ qui il punto fondamentale da cui far scaturire le strategie vincenti affinché le regioni più svantaggiate riescano a ridurre le distanze che non sono soltanto economiche, ma sociali, politiche, storiche e tanto altro.
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Tranne la fatale emigrazione (ma anche l popolazioni del Nord sono emigrate nei più svariati Paesi del mondo) non si è mai affrontato, senza pietismi e sconti, il perché e in base a quali valori comuni gli abitanti del Sud debbano stare e lavorare insieme, per il bene comune e per lo sviluppo.
Esiste un atto fondativo del Sud? A mio avviso, no. Dobbiamo ammettere che i freni a una condivisa visione del futuro sono stati azionati scientemente da coloro che hanno vissuto e tuttora vivono sull’immobilismo e sulla difesa corporativa di privilegi acquisiti chissà per quali meriti. E sapete perché i giovani fuggono? Semplice, perché vivere in quelle terre e in quei paesi non piace. Altrimenti resterebbero e si sobbarcherebbero fatiche su fatiche per migliorare le loro condizioni di vita e quelle della comunità. Quello che fanno una volta respirata l’aria dell’Europa.
Si sono creati, durante i decenni, vuoti di idee, di sani comportamenti, di virtù civiche; è stata recisa la trasmissione di valori che i grandi intellettuali avevano tentato di inculcarci. Inutilmente.
In politica si è fatto finta di non vedere clientelismo, corruzione, affarismo, familismo, privilegi dinastici. Eppure cricche e camarille sono sotto gli occhi di tutti. Anzi, in molti hanno preferito cedere autonomia di giudizio e di comportamento proprio a coloro che di questa situazione sono i principali responsabili.
Nel sociale sta scomparendo il senso di comunità, traslocato nelle logiche del clan e tifoserie varie. Il bene comune diventa l’appagamento per un tempo limitato di illusori bisogni personali. “Se sto bene io stanno bene tutti”. Non la faccio lunga. A questo punto compare, ineluttabile, la domanda delle domande: che fare? Risposte arriveranno. Una la si può dare fin d’ora e riguarda una dolorosa mancanza: la cultura.
Piero Di Antonio