di Piero Di Antonio
— Metti, una sera a cena. A parlare di cose più o meno futili, cose poco impegnative che la serata e gli ospiti richiedono. Eppure poche ore prima tutti sono stati investiti da notizie drammatiche, tragiche, che hanno sconvolto la nostra apparente capacità di comprensione: un giovane italiano – un immigrato fuori di testa – ha ucciso una donna senza un perché. Una voce dentro gli aveva detto di farlo e lui, obbedendo a se stesso, lo ha fatto, uscendo di casa con quattro coltelli.. Ha confuso la voce dentro con una voce esterna, sembrava un ordine arrivato da chissà dove, invece era tutto nella sua persona.
Il tempo di digerire la sciocca reazione di un ministro-vicepremier che ha urlato il classico “si getti la chiave” ed ecco un’altra notizia a rompere il tran-tran: un ragazzo ha accoltellato con inaudita forza e violenza – 68 colpi dice il medico legale – il fratello di appena 12 anni. Poi ha fatto altrettanto con la mamma e il papà. Ha confessato al magistrato che si sentiva oppresso, nonostante una situazione famigliare agiata e senza troppi pensieri. Voleva strarsene solo. L’affetto dei suoi lo soffocava. A 17 anni, in altri tempi, molti già pensavano a come uscire da una vita che stava stretta, a che cosa fare dopo la maturità, dove andare, con chi accompagnarsi e con chi fare le prime e più importanti esperienze di vita vera, senza la rete di protezione del “focolare”.
In tempi lontani, chi si sentiva oppresso dalla situazione in cui viveva faceva le valigie e andava incontro al destino. Le civiltà sono nate proprio da questo partire e ricominciare, ricominciare ancora, sfidare la sorte che li aveva fatti nascere in quel posto e non in un altro, più protetto e sicuro. Oggi, la strada che un adolescente sceglie è quella breve, immediata e in qualche caso e purtroppo definitiva. Pensa di eliminare il male oscuro afferrando un coltello e uccidendo. Facendola finita con le brutte e opprimenti sensazioni, dei richiami immaginari dell’ego.
Come fare a non parlarne tra una portata e l’altra? Come si fa a non ascoltare il pensiero dei tuoi amici su vicende che scuotono l’anima? Ebbene, se tiri fuori questi argomenti scoprirai che rimangono vivi per meno di un minuto. Stesse sensazioni hanno avuto altri conoscenti. Più interessante parlare del tempo di fine estate o del caldo che ci ha asfissiato, o del mare invaso dalle mucillagini; è più d’attualità la novità che abbiamo scoperto acquistando il nuovo iPhone, l’ultimo, che poi sarebbe sempre il penultimo di una lunga serie a venire. Sono le avventure di un’estate che di avventuroso non hanno nulla, che richiamano tuttalpiù una nostra breve e distratta attenzione.
Come fai a eludere i perché senza risposta che assediano un ragazzo, ha l’età dei nostri figli, che non conosci, ma che è pur sempre figlio del tuo tempo? Non interessa? Non ci riguarda? Oppure tanta è la paura che ci sopraffà? Questi episodi potrebbero essere lo specchio di nostre inquietudini che serpeggiano finanche tra le mura di casa. Meglio sorvolare.
Ti devi accontentare, allora, di ascoltare qualche banale commento in tv di ospiti ed esperti che non sanno proprio che dire, oppure riflettere e tentare di capire l’analisi dello psicanalista a la page, che su Repubblica si avventura in una dotta dissertazione su ciò che, nel caso di Paderno Dugnano, è andato in frantumi nella quiete famigliare senza che nessuno si fosse accorto dei cocchi disseminati per terra.
Risultato: non capisci granché. La psicanalisi, in questi casi, non aiuta. Troppo raffinata e complessa per cucirla addosso a situazioni che sfuggono di mano. Non serve. Per capire, occorre intraprendere un viaggio a ritroso nelle nostre vite, prima di figli, poi di genitori. Altrimenti i cocci delle nostre esistenze – e quelli dei ragazzi che vivono momenti di assoluto abbandono nonostante il tutto che li circonda – continueranno a stare sotto il tappeto.
Ma come riannodare legami che il mondo circostante ha reciso? La risposta è a portata di mano: la riscoperta della semplicità e del valore dela parola e del discorso, della trasmissione di insegnamenti che potrebbero apparire datati ma di indiscusso valore. E’ questo il bisogno che la società affluente ci chiede di soddisfare. Invece, affidiamo il tutto all’ambiente circostante, alla scuola così com’è, una fabbrica di frustrati e acchiappa-diplomi, alla tecnica che ha pervaso ormai ogni secondo della nostra quotidianità sostituendo i sentimenti, al conformismo che ti viene chiesto per indebolire lo spirito critico e per allontanarti dallo studio. Lo studio non serve più. Le risposte ti arrivano – brevi e veloci – in un nanosecondo, senza afferrare da dove vengono e senza sapere da chi sono state confezionate.
E quando tutto ti sembra chiaro, o meglio più accettabile, la cronaca ti riporta a una strada di Bologna dove in una tarda serata si sono sfidati e affrontati a colpi di coltelli gruppi di minorenni tendenti al bullismo. Un adolescente, sedici anni appena, è rimasto ucciso da un coetaneo. Un altro ragazzo è stato ferito. I media parlano di una rissa di particolare violenza, come se ne vedono in tanti film o fiction dove la morte, l’assassinio, la violenza non sono altro che dei frame, immagini di una tragedia in movimento che scorrono per un secondo, per far posto a un’altra scena, come impone la scenggiatura.
Che la situazione ci stia forse sfuggendo di mano? Il passato, ricordiamo, non è esente da questi drammi, ma elencarli sarebbe troppo lungo e non ci direbbe molto. Oggi, però, l’immersione nell’informazione globale e continua fa sì che si pretende di conoscere ogni aspetto della vita e dei comportamenti altrui, sebbene le nostre comunità si sentano soddisfatte soltanto dalla garanzia di tranquillità e del quieto vivere.L’interminabile sequenza di telecamere disseminate in ogni luogo registrano ciò che vedono. Registrano, ma non possono capire. La tecnica ci offre l’immagine di ciò che avviene nelle strade e nella piazze, mai potrà dirci ciò che rende inquieta la nostra esistenza.
Spesso, sempre più spesso, si oltrepassano i confini del conoscibile, della spiegazione logica. E dinanzi alla deflagrazione dell’inaspettata e quindi scioccante violenza omicida non sappiamo dire, con stupore, altro se non un sorprendente e consolatorio “era una persona tranquilla, mai dato problemi”.
Invece i problemi sono sempre in agguato, dove e quando meno te l’aspetti. Il caos calmo alberga in molte persone, ma a noi basta sentirci soddisfatti mettendo tutto alle spalle. Non vogliamo sapere, perché una volta aperta la porta della conoscenza abbiamo l’obbligo di sforzarci per capire l’altrui disagio, per tentare di cambiare le cose o, almeno, per arginare i pericoli che incombono sui nostri affetti.
Che l’adolescenza sia oggi un problema è un dato di fatto. Bologna, ultimo caso in ordine di tempo, ci dice che la situazione è molto scivolosa. Che fare, dopo aver bombardato ragazzi ancora in erba di concetti facili facili, immediati e facile da rottamare? Nelle famiglie trovano genitori-sponsor fin troppo “amici”, nella scuola un mondo di relazioni e conoscenze che sta scomparendo, che detesta il mondo reale per aggrapparsi al passato-passato. La scuola è diventata la palestra dell’estraneità e, in certi casi, della sopraffazione del più debole, dell’indifeso.
Dove non si può parlare, ad esempio, di che cosa sia stata la seconda guerra mondiale, di che cosa significhi avere una Costituzione di quella levatura morale, di come affrontare i tanti dilemmi che la politica e l’economia pongono in ogni istante della giornata. I criminologi amano ripetere: “Dimmi come ammazzi e ti dirò perché l’hai fatto”.Quando ci sono di mezzo i coltelli in genere si tratta di omicidi che hanno a che fare con l’amore (snaturato a tal punto da diventare odio) o con altre emozioni che fanno perdere il lume della ragione. Ma nei recenti casi non si può parlare di duelli rusticani o di passioni che hanno superato il livello del controllo. Siamo in presenza di un deserto, dell’abbandono. E all’orizzonte, una volta attraversato il deserto, si prospetta la peggiore delle dittature: l’irrimediabile.