Montefusco assassinò a fucilate la moglie Gabriela Trandafir, 47 anni, e la figlia della donna, Renata, 22enne, a Cavazzona di Castelfranco Emilia. La Procura di Modena aveva chiesto l’ergastolo, ma i giudici (presidente estensore Ester Russo) il 9 ottobre hanno riconosciuto le attenuanti generiche equivalenti rispetto alle aggravanti riconosciute (rapporto di coniugio e aver commesso il fatto davanti al figlio minore della coppia), escludendo premeditazione, motivi abietti e futili, l’aver agito con crudeltà e ritenendo assorbiti i maltrattamenti nell’omicidio.
La sentenza spiega in oltre 200 pagine come il delitto sia avvenuto in un contesto di forte conflitto tra Montefusco e le due donne, con presentazione di denunce reciproche. Secondo i giudici il movente “non può essere ricondotto e ridotto a un mero contenuto economico” sulla casa dove vivevano. Ma è piuttosto da riferirsi “alla condizione psicologica di profondo disagio, umiliazione e enorme frustrazione vissuta dall’imputato, a cagione del clima di altissima conflittualità che si era venuto a creare nell’ambito del menage coniugale e della concreta evenienza che lui stesso dovesse abbandonare l’abitazione famigliare” e con essa anche controllo e cura del figlio.
Per i giudici è “plausibile” che, come riferito da Montefusco, quando Renata gli disse ancora una volta che avrebbe dovuto lasciare la casa questo “abbia determinato nel suo animo, come dallo stesso più volte sottolineato, quel black-out emozionale ed esistenziale che lo avrebbe condotto a correre a prendere l’arma” a pochi metri di distanza e uccidere le due che “mai e poi mai” secondo quanto affermato dai testimoni sentiti in aula, aveva prima d’allora minacciato di morte.
La concessione delle generiche considera la confessione, la sostanziale incensuratezza, il corretto contegno processuale e la “situazione che si era creata nell’ambiente famigliare e che lo ha indotto a compiere il tragico gesto”. Nel giudicare l’equivalenza tra attenuanti e aggravanti non si può non tenere conto, per la Corte, “di tutta quella serie di condotte unilaterali e reciproche che, susseguitesi nel tempo e cumulativamente considerate” se pure non hanno integrato l’attenuante della provocazione “hanno senz’altro determinato l’abnorme e tuttavia causale reazione dell’imputato”.
Una mattina d’estate di tre anni fa interruppe i lavori in giardino, nella propria villetta, per prendere il fucile e sparare prima alla figlia che, accortasi del pericolo, stava scavalcando la recinzione, poi alla moglie, che si era rifugiata in casa, il tutto davanti agli occhi del loro figlio minorenne.
Il 23 giugno del 2022 Salvatore Montefusco, imprenditore edile in pensione di 71 anni, distrusse così la sua famiglia, uccidendo brutalmente la moglie, Gabriela Trandafir, 47 anni, e la figlia di lei, Renata, 22 anni, a Cavazzona di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena. Il Pm aveva chiesto per lui il carcere a vita per il doppio femminicidio, ma i giudici gli hanno assegnato una condanna a 30 anni, scontandolo dalle aggravanti.
La tragedia era avvenuta il giorno prima dell’udienza di separazione dalla moglie, a cui la coppia era giunta in maniera burrascosa, a forza di denunce reciproche, litigi e brutte parole, a cui spesso si associava anche Renata, prendendo le parti della madre. Lo stesso Montefusco nel corso delle udienze aveva giustificato l’atto criminale perché si sentiva umiliato dalle due donne.
E in alcuni passaggi delle 200 pagine di sentenza pare quasi che questa spiegazione sia stata “accolta” dai giudici, che hanno considerato in primis come Montefusco fosse incensurato e “non avesse mai commesso delitti di così rilevante gravità- riferisce il dispositivo- se non spinto dalle nefaste dinamiche famigliari che si erano col tempo innescate”. In sostanza, per i giudici “la situazione che si era creata nell’ambiente familiare lo ha indotto al tragico gesto, compiuto per motivi umanamente comprensibili”, riporta la sentenza.
Secondo il dispositivo il movente “non può essere ricondotto e ridotto a un mero contenuto economico”, sulla casa dove vivevano che era contesa tra moglie e marito. Ma è piuttosto da riferirsi “alla condizione psicologica di profondo disagio, umiliazione e enorme frustrazione vissuta dall’imputato, a cagione del clima di altissima conflittualità che si era venuto a creare nell’ambito del menage coniugale e della concreta evenienza che lui stesso dovesse abbandonare l’abitazione famigliare”.
La sentenza ha suscitato la reazione della ministra per la Famiglia, Roccella, che parla di una sentenza contraddittoria.