sabato 23 Novembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

MOSTRA DEL CINEMA / Leone d’Oro a Pedro Almodovar (La stanza accanto)

Il melò raffredato e contemplativo di Pedro Almodovar, The Room Nextx Door (La stanza accanto), ha vinto il Leone d’Oro dell’81esima mostra internazionale del Cinema di Venezia.

Interpretato da Tilda Swinton e Julianne Moore, è Il primo film del regista spagnolo girato negli Usa, in inglese, ed è sempre stato in testa nella classifica dei favoriti della stampa italiana. Un film che parla dell’amicizia tra due giornaliste e dell’eutanasia.

Il brasiliano “I’M Still Here” di Walter Salles era l’altro favorito per la stampa internazionale. E’ un film che ricostruisce la storia vera della moglie di un desaparecido che, dopo l’arresto del marito, deve salvare la propria famiglia e la memoria del coniuge, è il favorito per i critici internazionali. Titolo originale: Ainda estoi aqui, come il libro ispiratore del figlio della coppia, amico da sempre del regista.

Il Leone d’Argento è andato al film di Maura Delpero, Vermiglio.

 LA VIGILIA DEI PRONOSTICI

Lo tallonava nei pronostici April, il film georgiano di Dea Kulumbegashvili, cruda e impietosa odissea di una dottoressa che procura aborti illegali e fornisce di nascosto anticoncezionali. Un film che, sulla carta, può piacere molto alla presidente di giuria Isabelle Huppert. Il film è piaciuto molto agli stranieri, quasi per nulla ai critici italiani. Tra i produttori c’è Luca Guadagnino.

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Chi vincerà l’81ma Mostra del Cinema di Venezia?

Il verdetto domani sera, sabato, a partire dalle 19 quando la giuria presieduta dall’attrice francese Isabelle Huppert svelerà i nomi dei premiati.

La classifica dei film migliori secondo la stampa italiana

The Room Next Door di Pedro Almodovar, con Julianne Moore e Tilda Swinton

The Brutalist di Brady Corbet

Lady Gaga e Phoenix in Joker 2

Joker: Folie à deux di Todd Phillips. Calorosa accoglienza alla Mostra del Cinema per Lady Gaga e Joaquin Phoenix, omaggiati con una standing ovation di 11 minuti. Mentre i presenti battevano ancora le mani, Phoenix ha abbandonato la sala lasciando Gaga da sola.

Trois amis di Emmanuel Mouret
The Order di Justin Kurzel
Vermiglio di Maura Delpero
Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin
Maria di Pablo Larrain

I film migliori secondo la stampa straniera

Fernanda Montenegro interpreta Eunice nel film di Salles

1) I’M Still Here di Walter Salles – La recensione di Alessio Palma su Quinlan

Il cinema di Walter Salles, che ha ottenuto il premio per la sceneggiatura, trova un nuovo inaspettato vigore con Ainda estou aqui (I’m Still Here), volgendo lo sguardo indietro, al Brasile dell’inizio degli anni ’70 segnato dalla dittatura militare e dai suoi subdoli e al tempo stesso concretissimi atti di coercizione sugli individui. Un ritratto familiare vibrante, una ricostruzione d’ambiente che restituisce il fermento culturale dell’epoca, un gruppo di personaggi ben delineati su cui si staglia la figura dignitosa di Eunice, madre e moglie alla ricerca della verità. Rio De Janeiro, 1970. L’ex-deputato del PTB Rubens Paiva vive con sua moglie Eunice e i cinque figli. Il colpo di stato di sei anni prima ha segnato la fine della sua vita politica. Eunice teme per l’incolumità della figlia maggiore Veronica, che partecipa attivamente ai movimenti studenteschi contro la dittatura militare. Un giorno Rubens viene prelevato dalle autorità per un interrogatorio e non fa più ritorno. Eunice comincia la sua battaglia solitaria per conoscere la verità, cercando allo stesso tempo di mantenere unita la propria famiglia…

2) April di Dea Kulumbegashvili
Harvest di Athīna Rachīl Tsaggarī
The Brutalist di Brady Corbet
The Room Next Door di Pedro Almodovar
Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin
Joker: Folie à deux di Todd Phillips
Babygirl di Halina Reijn
Maria di Pablo Larrain
El Jockey di Luis Ortega

QUEER di LKUCA GUADAGNINO. La recensione entusiasta di Mattia Carzaniga su Rolling Stone.

– Io non sono così”, si legge continuamente in Queer di William S. Burroughs, e si sente ora nel bellissimo film che ne ha tratto, dopo una vita che lo voleva fare, Luca Guadagnino. Io non sono frocio, sarebbe. È la parola usata in quelle pagine e, ora, sullo schermo. Il romanzo letteralmente della vita di Burroughs (oggi sarebbe liquidato con: autofiction) uscì da noi, nella prima edizione, col titolo Checca. Oggi finirebbero tutti in galera.

Ora Queer ha preso, anche fortunatamente, altri significati, è stata accolta nel lessico mainstream, s’è piegata a un uso diverso, che ora sarebbe liquidato con: inclusivo. Ed è giusto, perché il queer originale di Burroughs vale sì come frocio, ma è pure molto altro. “Io non sono così” era una negazione dell’omosessualità percepita, al tempo, come demascolinizzazione. Ma “Io non sono così” anche perché so che non sono come gli altri, non sono come voi. Al di là del sesso, della condanna all’esilio, alla solitudine.

 

Anche Luca Guadagnino non è mai stato così, non è mai stato come gli altri. È fuggito dal sistema del cinema italiano, se per sistema del cinema italiano s’intende l’industria romana. È stato per questo osteggiato, accolto altrove restando però apolide, e da qualche tempo – col senno di poi però son capaci tutti – è stato riaccolto in patria come l’autore che è sempre stato, che è oggi più che mai. Queer è il progetto della vita, anche per lui. Un film che voleva/doveva fare da sempre, ma anche – lo si capisce vedendolo – che poteva fare solo adesso. Dopo tutto quello che il suo cinema è stato, dopo tutto quello che Guadagnino è diventato.

 

E però, nella fedeltà quasi religiosa nei confronti del romanzo (del regista, ma anche dello sceneggiatore Justin Kuritzkes, lo stesso di Challengers), Guadagnino trova lo spazio personale per il suo film probabilmente più intimo, certamente ispiratissimo, pieno di cose che sono solo sue, il mystery of love e il gioco della seduzione, fino al body horror (c’è una splendida scena in cui l’amore diventa davvero “la pelle che abito”).

 

Città del Messico è stata ricreata a Cinecittà, ed è un set meraviglioso come quelli dei film anni ’40-50, dal Tesoro della Sierra Madre all’Infernale Quinlan, a cui Queer rimanda per gusto per l’esotismo e uso del divismo (però con un personaggio omosessuale che scardina tutto). È un Messico finto e verissimo, svelato, sempre alla fine, dal modellino dell’hotel in cui vive Lee, che rende ancora più vera questa letterale messinscena.

E poi – dicevo del divismo – c’è Daniel Craig. Dal James Bond tra los muertos di Mexico City al morto che adesso è lui nella stessa città appiccicosa, in quelle stanze d’albergo tra Professione: reporter, e Il tè nel deserto, e inevitabilmente Il pasto nudo. Qui il reporter è lui, ma, dicevo, l’indagine è solo su sé stesso. Cerca – nella dipendenza dalle droghe, nel sesso – la chiave per capire, per capirsi. Sogna di trovare il suo tesoro sepolto nella giungla, la droga miracolosa che attiva la telepatia: ma solo per riuscire parlare con i suoi fantasmi, con l’oscuro, con l’immateriale. E difatti, alla fine, questo film di corpi, di seduzione, di pelle e di sudore finisce per smaterializzare tutto fino al niente, fino al tutto.

Craig è eccezionale, nelle movenze, nella voce, nell’equilibrio tra aggressività e fragilità (l’impacciato corteggiamento di Gene, la prima scena erotica tra i due), nel concedersi tenendo sempre a freno il possibile sbraco (il piano sequenza della “pera”, pardon, è stupefacente). È, anche per lui, il film della vita? Probabilmente sì. Attorno a lui tanti volti giustissimi, il maliziosamente virginale Drew Starkey (cioè Gene), il queerissimo Jason Schwartzman, la rabbiosa Lesley Manville (unica licenza rispetto al libro, dove il personaggio è un uomo).

La tequila, il viaggio, il sesso, un colpo di pistola (ma in chiave totalmente anti-007). Un film visto al cinema, in due, dove il corpo dell’uno prova a staccarsi per abbracciare l’altro: ma la distanza è incolmabile. L’importante è perdersi nell’intrico, qualunque esso sia, fino alla destinazione di quel viaggio che facciamo sempre da soli, e che non riaggiusta niente. “Il nostro amore crescerà ancora, più vasto degli imperi”. Sono alcune delle ultime parole di Burroughs, le canta Caetano Veloso nella canzone sui titoli di coda. E forse la materia si ricomporrà, da qualche parte, alla fine o all’inizio di un altro viaggio.

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