di Piero Di Antonio
— All’Aquila il ministro della nuova cultura di Destra, Sangiuliano, ha vomitato molto fiele, come da tempo è suo costume, sui radical-chic e sulle terrazze e salotti romani. Un refrain di luoghi comuni e di false informazioni, accompagnati dal ritornello “i comunisti non sono mai andati via”, buono per illudere quella parte della pubblica opinione che a bocca aperta digerisce tutto, anche evidenti forzature a fini propagandistici e di mere convenienze di partito o di club della caccia.
Meraviglia, in queste circostanze, che non vi sia qualcuno che, dal loggione come ai tempi di Petrolini, abbia la prontezza, la preparazione e il coraggio di smentire in diretta un tale cumulo di sciocchezze dette da un personaggio che non ha fatto mai mistero del suo sapere e della sua dialettica al servizio della destra, e non soltanto romana.
L’idea che sovviene nell’ascoltare i Sangiuliano e le Meloni della nuova ventata di destra è che in simili frangenti venga allo scoperto un modo di essere e di ragionare tipico di una plebe ignorante, sostanzialmente populista e malinformata. Smentiamo subito il principale e troppo abusato luogo comune “la voce del popolo è la voce di Dio”. Non sempre, la voce del popolo è la voce… del popolo, e basta.
Con radical-chic, accompagnato con lo schiocco di una frusta, non si vuole forse richiamare l’idea di una èlite (di sinistra, of course) che finge di parlare al popolo ma che in realtà sta attenta solo ai suoi interessi di classe colta e privilegiata? E chic? Che cosa vorrebbe significare dirlo con quell’espressione quasi schifata? Che forse eleganza e civiltà siano delle sovrastrutture nella nostra vita terrena?
Invece, e qui sta l’autentico suo significato, sono modi di essere e di pensare che contrastano la vulgata dell’ignoranza e delle cose dette a casaccio, generiche, senza alcun costrutto fondato sui fatti. Sono frasi confezionate in qualche salotto o club di destra o di lobbisti che aiutano il demagogo di turno a tirare avanti, confidando sull’efficacia immediata di ciò che dice e non per ciò che si è costruito.
Il peggio è che in parecchi, dinanzi a simili bestialità, si ritraggono, forse intimiditi dalla virulenza dell’affermazione, come se essere radicali, ovvero legati a principi condivisibili di progresso, non rappresenti altro che un atteggiamento ipocrita a tutto svantaggio delle classi subalterne.
Il termine, invece, ha un significato profondamente verticale, meno terra-terra e banale come si vuole far intendere. Essere radical-chic non è altro che dare seguito, nell’inevitabile modernizzazione del linguaggio, a ciò che i nostri padri ci hanno sempre invogliato a fare: studia, figlio mio, studia; leggi, figlio mio, leggi; perché la cultura è l’unico modo per andare avanti nella vita, per emendarsi dal bisogno e dalla marginalità. La cultura – si diceva un tempo alla maniera gramsciana – è l’arma che ti farà afffontare a viso aperto e superare gli ostacoli con cui una schiera di privilegiati ha lastricato la strada di chi parte svantaggiato, per censo e per natali pooco fortunati.
Oggi, duole dirlo, questa eredità dei nostri padri si è affievolita, perché altri valori si sono imposti. E’ stata messa da parte, accantonata perché non più funzionale al tempo della continua accelerazione del pensiero e della riflessione. Altri ancora, e sempre poco rassicuranti, ne arriveranno. Oggi conta l’affermazione stringata, la frase a effetto da spot pubblicitario. Dietro, spesso, c’è poco per non dire nulla. Diventa così poco confutabile ciò che ormai si sente in qualsiasi risvolto dell’informazione.
La strategia non è poi tanto raffinata: alla sinistra che ha sempre puntato sulla cultura come fattore di progresso e sviluppo, oltre che di emancipazione, occorre contrapporre l’opera demolitoria degli slogan che diventano, sempre per i più ingenui, delle verità scolpite sulle tavole della legge.
Vediamole allora queste verità: la più evidente, ripetuta all’infinito, è proprio l’accusa di essere un radical chic, che sottintende il frequentare gli stessi posti tra simili, discutere davanti al mare di Capalbio di letteratura, di politica, di gossip e di tutto lo scibile. Scrittori, giornalisti, architetti, saggisti, politici di sinistra, intellettuali vari che si riuniscono per pianificare l’avvento del comunismo o, peggio, la lotta armata. O parbleu! verrebbe da esclamare. Vuoi vedere che sotto certe opere letterarie si nascondeva un kalashnikov? E che Moravia, o la Morante, o Arbasino siano stati in realtà l’avanguardia dell’assalto al Palazzo d’Inverno?
La volgarizzazione di Capalbio (che non significa nulla se non un luogo tra i tanti di villeggiatura e neanche il più bello) altro non è, in verità, che una strategia tesa a demolire la forza della cultura e della creazione artistica. Non è che il ministro miracolato della nuova cultura di destra, sotto sotto, provi un certo fastidio nel non essere in grado di lasciare all’eternità romanzi come Gli indifferenti, La Noia, la Ciociara e altri ancora? C’è il fondato dubbio, visti i precedenti, che il ministro li abbia letti. Che poi Moravia e tanti altri amassero andare a Capalbio saranno stati fatti suoi.
Ma resta inesplicata una considerazione: che l’astio che certi personaggi di primo piano manifestano per quel mondo non ci riconduca alla favola della volpe e l’uva (poiché non potè toccare il grappolo, la volpe, andandosene, disse: “Non è ancora matura: non voglio coglierla acerba”). La morale è che la volpe fa proprio come alcuni uomini o ministri che, non riuscendo a superare le difficoltà, accusano le circostanze e non si interrogano sui loro limiti.
In fondo, prima di passare ai salotti e alle terrazze, occore ricordare che il mito del radicalismo chic è ben presente, sebbene dissimulato, nella destra di governo. Andare a Capalbio è disdicevole. E andare nella Masseria super stellata di Bruno Vespa in Puglia, come da soggiorno della presidente del Consiglio, che cosa rappresenta? Non è forse questa la destinazione della nuova classe padronale che vive e prospera non di successi letterari ma di privilegi? Attenzione, quindi, a far di tutta l’erba un fascio. Il club di Capalbio sprizzava cultura e forse anche attaggiamenti modaioli, ma il nuovo club pugliese della Destra sprizza privilegi.
(Foto: Capalbio nel film “Come un gatto in tangenziale” con Paolo Cortellesi e Antonio Albanese)
E sulle terrazze romane che cosa possiamo eccepire ? Che gli intellettuali si incontrassero lì è solo un bene. Il film di Ettore Scola è solo una parte del fenomeno e neanche il più aderente alla reale importanza. E dove, sennò, dovevano vedersi?
Per non parlare poi dei salotti. Il più noto è stato quello della vedova Angiolillo, il fondatore del giornale Il Tempo, non da oggi megafono della Destra. Lì, tra i divani dell’aristocrazia nera romana (tanto denaro senza grandi fatiche) si incontravano tutti. In genere personaggi di potere che in qualche occasione hanno facilitato la strada al nuovo potere. Il guaio è che da quando parte della sinistra ha cominciato a frequentarli ha cominciato a perdere e ad arretrare nella nuova società che si stava e si sta imponendo.
Non sarà un caso, ma i salotti veri che la sinistra doveva e deve frequentare sono quelli delle aziende, della modernità, delle università, dei circoli accamedici, della scienza e dell’innovazione, dei quartieri dove pulsa sottotraccia una vita inespressa. E se qualcuno da Destra l’accusa di frequentarli, basta un’alzata di spalle, oppure un eloquente ” je m’en fiche”. E tirare avanti. La volpe andrà via da sola.