Trump pronto a inaugurare “la più grande espulsione di massa” della storia americana. Ma è scontro con le città-santuario democratiche. Papa Francesco ha definito le deportazioni come una vergogna, specificando che “non si risolvono i problemi colpendo i più deboli”. Il reportage da Chicago e New York.
di Gennaro Mansi
Secondo fonti vicine al Dipartimento della Sicurezza Nazionale (DHS), l’Immigration and Customs Enforcement (ICE) è in procinto di lanciare una retata anti-clandestini con pochi precedenti nella storia recente USA, con il dispiegamento di centinaia di agenti nelle principali città statunitensi, tra cui appunto il centro più popoloso del Midwest. L’obiettivo dichiarato è colpire circa 300 immigrati irregolari con precedenti penali, ma le modalità di intervento sollevano preoccupazioni: in passato, raid simili hanno coinvolto anche persone con fedina penale immacolata, oppure famigliari e coinquilini dei ricercati.
“Non voglio dire quando, ma accadrà,” ha promesso con fare sibillino Trump. In campagna elettorale il candidato GOP aveva promesso di dar vita “al più grande programma di deportazione di criminali nella storia dell’America fin dal primo giorno di mandato”, con l’obiettivo di espellere “15 milioni, forse anche 20 milioni” di clandestini.
Le rigide temperature che hanno colpito la costa est (con punte sotto i -10° C) negli ultimi giorni potrebbero aver ritardato l’inizio delle operazioni, ma l’incertezza non fa che aumentare l’angoscia di chi teme di finire nel mirino del nuovo corso inaugurato a Washington. Chicago, come molte altre città-santuario, ha già annunciato resistenza contro le nuove direttive federali.
Le autorità locali, guidate dal governatore democratico dell’Illinois JB Pritzker e dal sindaco progressista Brandon Johnson, hanno ribadito che non hanno alcuna intenzione di collaborare con l’ICE. Le leggi cittadine dopotutto vietano alla polizia di condividere con le autorità federali qualsiasi informazione sensibile sui residenti privi di documenti – a maggior ragione in un clima che gli oppositori del nuovo corso GOP definiscono da “caccia alle streghe”.
“Chicago rimarrà un luogo sicuro per tutti i suoi abitanti, indipendentemente dal loro status legale,” ci ha tenuto a precisare Johnson, che in queste ore ha contestualmente dato ordine a scuole, ospedali e perfino trasporti pubblici di negare ogni accesso non preventivamente autorizzato agli agenti federali.
Sì, anche scuole e ospedali: tra le novità più temute delle nuove direttive del DHS c’è infatti l’abolizione delle cosiddette “zone sicure.” In passato, scuole, chiese e ospedali erano infatti considerati luoghi off-limits per i blitz dell’ICE. Ma ora, su espressa indicazione di Trump, quella distinzione non esiste più – con il risultato che, secondo il DHS, “i criminali non potranno più nascondersi in scuole e chiese.”
La decisione ha scatenato un misto di sgomento e furia da parte delle comunità religiose. Molte chiese di Chicago hanno sospeso le celebrazioni in presenza, trasformandosi in centri di supporto per i migranti. “Non possiamo abbandonare queste famiglie,” ha dichiarato Monsignor Robert Casey, vicario generale dell’arcidiocesi cattolica di Chicago. “La nostra missione è proteggere i più vulnerabili.”
Sul punto è intervenuto perfino Papa Francesco, che in un’intervista televisiva ha apostrofato senza mezzi termini le deportazioni come una “vergogna” e specificando che “non si risolvono i problemi colpendo i più deboli”.
Ma dietro la matematica delle statistiche e la retorica delle dichiarazioni ci sono le storie di migliaia di famiglie costrette a convivere con l’ansia che, da un momento all’altro, qualcuno bussi alla loro porta. Elena Barrera, madre di due figli, è una di queste. Da 27 anni vive a Chicago senza documenti, lavorando come collaboratrice domestica. “Mio figlio ha solo 10 anni, non conosce altro che questa città,” racconta tra le lacrime. “Non so cosa farebbe se mi portassero via.”
La paura si estende anche ai bambini, molti dei quali formalmente cittadini americani (in quanto nati sul suolo USA) ma che potrebbero comunque subire il trauma di venire separati dai genitori. Le scuole stanno distribuendo materiale informativo sui diritti degli immigrati e su come affrontare un’eventuale raid degli agenti federali.
“Se l’ICE bussa alla porta, non aprite,” recitano i volantini distribuiti dall’Illinois Coalition for Immigrant and Refugee Rights, uno dei tanti gruppi di volontari che hanno preso ad organizzare corsi di formazione per insegnare ai migranti come reagire durante un raid. “La conoscenza è potere,” spiega Maria Gonzalez, attivista per i diritti umani. “Vogliamo che le persone sappiano che hanno diritti, anche se non hanno documenti.” Nelle ultime settimane, altre centinaia di persone sono scese in piazza per protestare contro le nuove politiche di Trump, con slogan come “Nessun essere umano è illegale” e “Basta separare le famiglie.”
Anche a New York gli uffici municipali hanno dato istruzioni al proprio personale di consultare tassativamente un avvocato prima di garantire accesso alle strutture pubbliche da parte degli agenti anti-clandestini, anche qualora presentassero un ordine giudiziario.
Rimane comunque più di un dubbio sull’effettiva capacità dell’ICE di sostenere un’operazione su larghissima scala come prescritto dal presidente. L’agenzia è già in deficit di 230 milioni di dollari (su un budget di 8 miliardi), e ulteriori finanziamenti richiederebbero l’approvazione espressa del Congresso, dove i repubblicani hanno sì la maggioranza assoluta ma dove le tensioni politiche sono alle stelle (anche nello stesso GOP). Senza contare il costo occulto delle espulsioni sull’economia USA: si stima che oltre un quinto dei lavoratori edili, e addirittura il 40% dei coltivatori agricoli, sia infatti privo di documenti.
Capitolo a parte riguarda l’altrettanto annosa questione dei nuovi arrivi. Trump ha deciso di schierare l’esercito alla frontiera meridionale ripristinare il programma “Remain in Mexico,” che obbliga i richiedenti asilo a rimanere al di là del confine in attesa di ottenere un permesso di soggiorno negli Stati Uniti.
Il repubblicano, tuttavia, sembra aver fatto i conti senza l’oste – in questo caso rappresentato proprio dal vicino meridionale, nei confronti del quale Trump ha impiegato una retorica tutt’altro che mansueta, promettendo di rinominare il Golfo del Messico in “Golfo d’America” e, come se non bastasse, di imporre dazi del 25% su tutte le importazioni dirette a nord.
La presidente messicana Claudia Sheinbaum ha così colto la palla al balzo per restituire il primo colpo di una potenzialmente lunga serie di botta e risposta. “Non accetteremo che il nostro Paese diventi un deposito per le politiche fallimentari di Washington”.