di Piero Di Antonio
— Una generazione di giornalisti era confluita 48 anni fa, era il 14 gennaio, e a seguire fino ai giorni del massimo fulgore, attorno a un grande e forse irripetibile fenomeno editoriale: La Repubblica. Le copie, per restare ai numeri, raggiunsero la cifra monstre di mezzo milione, superando anche la corazzata Corriere della Sera, che Giorgio Bocca amava definire il giornale delle prefetture. Le sue inchieste venivano lette e discusse in tutti gli ambienti, e non soltanto di sinistra come una grezza informazione di destra tendeva e tende ancora a far credere agli animi semplici che mai si sono avvicinati alla lettura di un giornale se non alla cronaca nera e al gossip sulla starlette del momento.
Grandi firme e grande coraggio. Reportage dall’Italia più profonda e commenti che aprivano gli occhi sui fenomeni emergenti, anche politici, con una forza di analisi che faceva rimanere incollati i lettori alle scelte della direzione dell’epoca. Aprivi il giornale e trovavi sempre qualcosa di nuovo, che prima se ne stava sottotraccia ma che bravi inviati, in Italia e nel mondo, riuscivano a portare all’attenzione di tutti.
E poi, seppure nella dichiarata vicinanza alla nuovo sinistra, liberale e progressista, sempre nella volontà di comprendere e rendere visibili i problemi, descriverli, rapportandoli sempre ai dettami della Costituzione. La Repubblica non è mai stata una testata estremista, anzi. Il suo ancoraggio alla Carta era forte e sempre presente in qualsiasi riga mandata in stampa.
Oggi, il glorioso quotidiano è alle prese con una crisi profonda che lo rende sempre più triste soprattutto agli occhi di coloro che ne avevano decretato il successo e che fa sorridere certi soloni supervalutati della destra, finalmente liberi di sparare sentenze su ciò che rimane di un avversario un tempo agguerrito e, soprattutto, sempre ben documentato.
Ora per via dell’inevitabile processo dello scaricabarile si vorrebbe indurre l’opinione pubblica ad attribuire l’innegabile ed evidente insuccesso editoriale a qualcosa che vola sopra i destini dell’uomo e delle sue azioni: generica crisi della stampa, disaffezione dei lettori, rifiuto della conoscenza verticale dei problemi, democrazia debole, società che cambia, l’avvento dei social e del web e via giustificando.
Ma la vera ragione di una ritirata sta in qualcosa di più immediato e semplice. Non tutto può essere riassumibile nella mancanza di una chiara strategia di investimenti, marketing, obiettivi, collocazione nel panorama editoriale. E’ che La Repubblica – cosa che viene opportunamente scansata nelle varie motivazioni che vogliono invece addolcire la pillola amara – ha cambiato pelle: è diventata un foglio di un tale conformismo che stupisce anche il più conservatore degli uomini.
Nelle due foto: Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, e la prima pagina del primo numero del giornale, 14 gennaio 1976
Esaurita una certa stagione politica, con la sinistra che non è mai riuscita a imporsi con correzioni e cambiamenti di prospettiva, il giornale ha seguito l’onda di un giornalismo moscio, pesante e, scusate, altrettanto palloso.
I tempi di Scalfari, Bocca, D’Avanzo (ricordate le dieci domande a Berlusconi?), Mafai, Ezio Mauro e tante altre grandi firme sono stati archiviati sostituendo il talento e l’originalità del fare autentico giornalismo con colleghi che provenivano dalle terze e quarte file, senza lombi di nobilità professionale.
Il tutto favorito dall’avvento del colosso Gedi, ex Fiat, che si è preso tutto – anche la profittevole catena di giornali locali, molto legati al territorio e ai lettori che non ti facevano sconti, per svenderli a varie cordate nel giro di poco tempo – e che ha aperto le porte a una trattazione monca e insufficiente della realtà, mettendola in mano a un direttore che sa spiegarci la rava e la fava della politica mondiale (come se Repubblica dovesse vendere esclusivamente nelle edicole di Parigi, Londra o New York) ma che non sa afferrare fino in fondo quello che avviene neanche nel bar sotto la redazione.
A certi commentatori che invadono di nulla le pagine di Repubblica sfugge un espetto fondamentale: prima essere forti in casa, poi alzare lo sguardo fuori dalle mura domestiche. E poi, diciamola tutta, un conto è dirigere un foglio aziendale (la Stampa della Fiat) un altro un giornale di area e tradizioni diverse che richiedeva e richiede una gestione coraggiosa e sempre innovativa.
E’ il guaio che perseguita chi si riempie la bocca di eventi internazionali, di parole come geopolitica, trattati, incontri bilaterali, trilaterali, G7, G10, G20 e G-inutili e si affida ad articolesse che puntano a spiegare l’universo mondo, trascurando il fatto che l’universo mondo si trova anche nelle vie delle nostre città, dove un tempo restavano aperte belle edicole che esponevano pile di giornali che andavano via come le caramelle.
Non regge la scusa della rivoluzione digitale. Il prodotto La Repubblica ha perso forza, non esprime più un modo di reagire alla crisi, ai suoi cambiamenti. Si è adeguato ai tempi, senza comprendere il benché minimo spostamento delle esigenze dei lettori.
Da giornale moderno di denuncia delle deviazioni e prepotenze del potere, La Repubblica si è afflosciata con l’esercito di colleghi di prima fila che stenta a trovare una narrazione della realtà aderente alla realtà stessa. Quindi, la conseguente trattazione dei fatti “in orizzontale”, mai che affondi la penna.
C’è una domanda alla quale nessuna delle firme rimaste saprebbe e potrebbe rispondere: quali grandi battaglie sono state condotte negli ultimi anni? Fate un esempio e chiederemo scusa. In che cosa ha inciso le sue inchieste quando le ha fatte? Quale problema ha affrontato per dare la risposta dei fatti a un’inflazione di commenti che, per dirla con Marc’Aurelio, nella gran parte dei casi servono a nascondere i fatti stessi?
In buona sostanza, nel corso degli ultimi anni, il vascello Repubblica ha smesso di rincorrere i fatti e le notizie. Con ciò ha nascosto il Paese reale, che giorno dopo giorno andava ad abbracciare idee e programmi prima della famosa araba fenice del centro (il famoso luogo del conformismo) e poi di quell’enorme sirena con le sembianze della Destra sbrigativa e prepotente.
La riprova di tutto ciò è la crescente difficoltà del corpo redazionale a comprendere e adeguarsi agli indirizzi della nuova proprietà (almeno fino a quando non finirà nelle mani dell’acchiappatutto di destra, Antonio Angelucci e le sue cliniche private) e della direzione che esprime. L’ultimo documento del comitato di redazione inviato a tutti i giornalisti è preoccupante nella sua spietata aderenza ai fatti.
LE LETTERA: UNA NAVE CHE AFFONDA
“Vedere Repubblica che viene abbandonata come una nave che affonda è motivo di particolare amarezza in questi mesi. Ma dobbiamo pensare a noi che restiamo e al futuro del giornale, certi che solo l’unione in questo frangente può fare la forza”.
Parole inviate via mail dai cinque componenti del Comitato di redazione della Repubblica ai 350 giornalisti del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Lettera di fine anno, che ribadisce concetti già espressi a metà dicembre, quando la redazione ha respinto l’ennesimo piano di prepensionamenti.
ANNO DELUDENTE. “L’anno che si chiude è stato sofferto e difficile, assai deludente per tutti noi. Il nostro giornale continua a perdere copie, abbonamenti e non riesce a trovare una strada nel digitale. E questo, a nostro avviso, per la mancanza di una chiara strategia di investimenti, marketing, obiettivi, collocazione nel panorama editoriale. Nonostante gli sforzi titanici di tutti noi.
La difesa dell’identità di Repubblica (che sembra importare solo a noi giornaliste e giornalisti che amiamo questo quotidiano e il lavoro che facciamo) ci ha impegnato in un anno che ha segnato la per noi traumatica disgregazione di quello che era il più importante gruppo editoriale del nostro Paese, smembrato e dismesso da un editore il cui progetto resta per noi incomprensibile, oltre che frutto di preoccupazione”.
La redazione attende dal direttore Maurizio Molinari il nuovo piano editoriale (a cui, con buone probabilità, sarà collegato un piano di esuberi): “Come sappiamo, nel futuro prossimo ci sono ancora tagli, riduzione del perimetro giornalistico, mortificazione di competenze e professionalità. Il 2024 si preannuncia un anno di dura battaglia a difesa del nostro posto di lavoro, del nostro nome, della nostra professionalità. Dovremo affrontarla tutte e tutti insieme, perché da questa caduta rovinosa non si salva nessuno”.
CINQUE SCIOPERI. A metà dicembre l’assemblea ha deliberato cinque giorni di sciopero. Ora, con la fine del 2023 e l’inizio dell’anno nuovo, la mail inviata dal Cdr a tutte le giornaliste e a tutti i giornalisti, per rimarcare quanto direzione e proprietà si stiano – e si siano – allontanati dall’identità (e dalla cultura) costruita nel tempo da Repubblica e dal suo gruppo editoriale.
Alle spalle, la storia più recente segnata dalla famiglia Elkann, proprietaria dalla fine del 2019: nel 2020 la vendita di Tirreno, Gazzetta di Modena, Gazzetta di Reggio e Nuova Ferrara; nel 2021 l’anno successivo la vendita di MicroMega; nel 2022 la vendita della storica rivista che dava il nome al gruppo, l’Espresso; nel 2023 la cessione delle sei testate del Nord-Est (Corriere delle Alpi, Piccolo, Messaggero Veneto, Nuova Venezia, Mattino di Padova e Tribuna di Treviso) e della storica Gazzetta di Mantova. E le voci – sempre più insistenti – sul passaggio di Radio Capital al re delle cliniche ed editore (Il Giornale, Il Tempo, Libero, Corriere dell’Umbria) Antonio Angelucci.
La metafora della nave in difficoltà era stata già usata dal Cdr de La Stampa, sempre proprietà Elkann, a fine luglio 2023, contestando la conduzione del direttore Giannini, poi sostituito dal suo vice Andrea Malaguti ad ottobre. (Il documento del cdr è tratto da professionereporter.eu)
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