C’è l’inflazione, c’è la benzina a 2 euro e più al litro, c’è l’affitto per andare all’università che equipara una stanza alla suite di un grand hotel, trasporti che, quando ci sono e vengono garantiti, ti spellano vivo se all’algoritmo quel giorno gli dice storta. Insomma, settembre supera di gran lunga nelle prospettive più nere il mese di aprile che sarebbe, stando a Thomas Eliot, il più crudele dei mesi.
Lasciata la vacanza – costosissima – sulle spiagge di cui dovremmo in teoria essere i proprietari e che invece sono alla mercé dei padroni del cielo, della terra e del mare a canoni quasi gratuiti, insulto alla giustizia economica e sociale – ci aspetta l’amaro in bocca quando, tornati sulla terra, ci avvertono che l’autunno sarà caldo, che la Finanziaria non sarà quel ben di Dio che partiti affamati si aspettano per dicembre, che le pensioni non reggono il tasso di denatalità, che le imminenti elezioni europee ci sommergeranno, per un pugno di voti, con uno tsunami di vuota retorica, promesse, false notizie e crudeltà varie e che il cambiamento climatico preannuncia disastri sul territorio.
Ma il vero tormento, sarete tutti d’accordo, è un altro: la scuola. Come sarà la classe di mio figlio, gli insegnanti saranno gli stessi dell’anno scorso oppure verrà qualcuno da un altro pianeta? Andremo avanti ancora con i supplenti? E i giorni di festa? Quand’è che posso sfruttare un ponte per andarmene di nuovo in vacanza? E’ stato mai risolto quel problema all’impianto di riscaldamento che l’anno scorso aveva lasciato al freddo tutta la classe? I servizi della scuola funzionano? C’è una biblioteca dove fermarsi nel dopo scuola? Sono solo una sintesi dei tanti interrogativi che sulla strada del ritorno assalgono la media famiglia italiana, ovviamente nel totale disinteresse dei figli, attratti dallo smartphone e da tik tok.
E che dire delle costose attività sportive cui vengono costretti il nostro esercito di futuri campioni di calcio, basket, ginnasti e ginnaste, tenniste e tennisti in erba pronti a emulare Alcaraz? Come conciliare gli orari con il traffico da rientro dal lavoro? Son problemi veri, quasi angoscianti, che richiedono la militanza e l’assistenza di nonni e nonne, zie e zii, o di amici alle prese con lo stesso assillo e con i quali dividere i problemi e l’incastro degli orari.
Ma la crudeltà di settembre raggiunge l’apice su un aspetto che riassume tutte le inefficienze del sistema scuola, ormai in balia del più sfrenato e superficiale consumismo. Non più dominato dal sapere e della sua trasmissione attraverso insegnanti e genitori interessati alla crescita dei figli, ma da politiche di raffinati e cinici operatori della cosiddetta cultura dell’insegnamento moderno, al passo con le nuove esigenze dominate dalla tecnica e dal mercato. L’umanesimo è bandito, eppure ci ha fatto crescere.
Tra giugno e agosto 2023 le ricerche dei libri di testo di seconda mano sono aumentate rispetto allo scorso anno. Online, e nei mercatini, è caccia alle copertine scolastiche in “buono stato”, segno evidente di una crisi che sta aggredendo moltre famiglie e che sta ulteriormente impoverendo i ceti medi.
E che dire dei costosi dizionari? Non sono poche le scuole che nel presentare l’elenco dei libri dei testi consigliano la nuovissima edizione del vocabolario, come se la lingua italiana mutasse da un anno all’altro, quasi di mese in mese. Risulta che molte famiglie abbiano protestato con i dirigenti scolastici per l’inserimento nella lista dei libri di testo di questo acquisto costoso ma del tutto superfluo, se lo si possiede già.
Ebbene, in questo caso deve valere una legge non scritta che ha accompagnato intere generazioni di studenti e che è un modo efficace per risparmiare: un dizionario Devoto-Oli, o lo Zingarelli, oppure la Treccani una volta comprati teneteveli ben stretti, valgono per sempre. Anzi, aumentano di valore ogni anno che passa.
L’inizio scuola 2023 è alle porte. Come ogni anno esplodono polemiche sul caro libri e sui compiti per le vacanze. Quest’ultimo aspetto è facilmente superabile, non fatene un cruccio: basterebbe assegnare alla fine dell’anno scolastico la lettura di un libro. Novanta giorni sono sufficienti per misurarsi in qualcosa di universale, interessante e, soprattutto, educativo.
Al ritorno in classe se ne discute, facendo crescere così la curiosità verso tutto ciò che non è moda, suscitando amore per la lettura. Fare i compiti d’estate è con tutta onestà troppo: i ragazzi devono giocare, fare nuove amicizie, essere spensierati lasciando da parte latino e greco, quando e dove sopravvivono, italiano, lingue e teoremi di Pitagora vari. Un bel libro può riassumere lo scibile umano, basta mezz’ora al giorno per accrescere la formazione di un ragazzo. E’ questo che dovrebbe fare la scuola, che continua però a portarsi appresso un fardello di critiche, le più disparate.
Stavolta arriva a farle, le critiche, un genitore, psicoterapeuta, che ha scritto al Corriere della Sera. “Il numero eccessivo di libri di testo, il peso degli zaini e i programmi sembrano fatti per creare ansia da prestazione a studenti e professori”, questi secondo il padre di due studenti sono i problemi che affliggono docenti e studenti e che impediscono loro un sereno svolgimento delle lezioni.
Ecco il racconto del genitore: “Sin da quando Mattia, il più grande, e Luca, più piccolo di due anni, hanno iniziato a frequentare le scuole elementari, non ho potuto evitare di osservare l’elevato numero di libri di testo e quaderni annessi, che abbiamo dovuto acquistare ogni anno. Tutti i genitori, compresi io e mia moglie, siamo stati costretti a farci carico del fardello o a sostituire lo zaino con un trolley. Da notare, inoltre, che molti dei suddetti libri arrivavano alla fine dell’anno quasi intonsi!”.
Nella lettera si sottolinea anche la “gran quantità” di compiti da svolgere a casa: “Io andavo a scuola con la mia bella cartella di cuoio dentro la quale trovavano posto due libri, due quaderni, un astuccio e il panino per la merenda. I compiti del pomeriggio non erano mai tanti e raramente così complicati da dover richiedere l’intervento dei genitori, perciò, una volta sbrigati, avevamo tempo per giocare con gli altri bambini. E giocando imparavamo le regole della convivenza e della ‘sopravvivenza’”.
E alle scuole medie? “Anche in questo caso alcuni testi arrivavano a fine anno quasi ‘nuovi’, come quelli da acquistare e leggere durante le vacanze estive. Pure io dovetti studiare a memoria su un libro la composizione di un fiore, per poi scoprire che anche ai miei figli è toccata la stessa sorte con la differenza che nel loro caso si sono aggiunte molte altre cose del genere: una pagina e mezza di libro che conteneva un lungo elenco di congiunzioni divise in gruppi di varie tipologie; la composizione dell’aratro; la preparazione del terreno alla semina, ecc.”, ha spiegato.
La testimonianza non risparmia neanche i consigli di classe, rei di offrire giudizi sommari e di “scaricare sulle spalle dei ragazzi tutte, ma proprio tutte, le responsabilità di un’istituzione che non funziona bene per come è articolata e per come viene proposta”.
Infine, un appello ai docenti: “Anche per voi deve essere dura insegnare in queste condizioni, oberati, oltretutto, da una serie di incombenze che con l’insegnamento non c’entrano nulla. Bisogna ripartire dai programmi che dovreste essere voi a redigere, anche attraverso l’ascolto degli studenti e dunque dai contenuti”. L’auspicio è di arrivare a una scuola “che sia un luogo accogliente per tutti e che non sia ridotta soltanto al voto e dunque a un giudizio”.
Bisogna ricordare, in ogni caso, che i programmi sono stati sostituiti dalle indicazioni nazionali sulla base delle quali i docenti sono chiamati a modellare i percorsi formativi sulla base delle necessità dell’allievo, anzi del singolo alunno.
Critiche condivisibili ma insufficienti. Sono a mio avviso rilievi orizzontali, che non vanno in profondità. Molti insegnanti e dirigenti scolastici, purtroppo, pendono dalle labbra delle case editrici che con una semplice rinfrescata dei tomi aumentano i prezzi facendo affari d’oro. Quegli stessi libri che a fine anno restano intonsi e che un tempo venivano rivenduti a metà prezzo. Una prassi abbastanza in disuso visto che l’esigenza degli studenti del terzo millennio è quello di presentarsi al primo giorno di scuola come a una sfilata di moda, come se non dovessero entrare in classe ma a Palazzo Pitti.
Libri nuovi, zainetto superfirmato in spalla per trasportare qualche chilo di libri e astucci vari – non si è mai vista una tale concentrazione di matite, penne, cancellini dai più svariati colori e funzioni: un tempo bastavano una matita e una penna biro – abiti da cenerentoline e sneakers da rapper o campione di basket. Ma è il mercato. E va bene, in Italia siamo diventati tutti liberali.
Ma la più stucchevole litania è quella dei docenti oberati da una serie di incombenze che nulla c’entrano con l’insegnamento e quindi distratti dal seguire i programmi.
Seguire i programmi è utile. Ma alla scuola moderna e a chi dovrebbe incarnarla manca un elemento fondamentale: la passione. Insegnare vuol dire trasmettere interesse, appassionare alunni e studenti, educarli alla conversazione e al confutare idee e convinzioni, a discutere anche sull’attualità, a tentare di capire il mondo.
Non serve cavalcare le mode e le superficialità che tracimano dal mondo circostante che considera qualsiasi studente un futuro consumatore, anche se destinato ad arrivare alla maggiore età stressato e distratto verso il mondo reale. Vale sempre chiedersi come mai i programmi di storia al liceo e negli istituti superiori si interrompano alla prima guerra mondiale. Come se tutto ciò che di drammatico e tragico avvenuto dopo debba essere tenuto all’oscuro.
Vige la logica dello struzzo. Un potenziale cittadino dev’essere tenuto all’oscuro, non va informato, bisogna impedirgli di afferrare il senso di un pensiero, di uno scritto, di un’opera d’arte. Ecco, la scuola dovrebbe essere la prima vera e indispensabile arte della nostra vita. Non un supermercato di intelligenze strappate al futuro e congeniali al mondo che parla solo di fatturato. La cultura e la scuola hanno un fatturato inestimabile. Lo si può misurare solo con l’andare del tempo. Non fa parte del Pil, lo contiene tutto.
Piero Di Antonio