Mai così tanti soldi sono stati destinati nel mondo alle armi. L’anno scorso la cifra ha toccato il record di 2.443 miliardi di dollari, pari a 306 dollari per ogni abitante del pianeta. È questo il dato più eclatante che emerge dal nuovo report sul sistema difesa presentato dall’Area studi di Mediobanca, in occasione dell’evento The defense era: capital and innovation in the current geopolitical cycle.
Il settore sta vivendo una fase di forte espansione, trainata dalle tensioni geopolitiche globali che hanno innescato una corsa al riarmo senza precedenti. L’escalation dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente, insieme alle crisi in Sudan e Myanmar, ha spinto i governi ad aumentare gli la spesa militare. Un trend che non accenna a rallentare: secondo le previsioni di Mediobanca, i ricavi delle principali aziende del settore cresceranno del 9% nel 2024 e del 12% nel 2025, un ritmo più che doppio rispetto alla crescita attesa del pil mondiale.
La ricerca fotografa un comparto in piena trasformazione, dove le aziende europee stanno cercando di colmare il gap con i colossi americani. Un inseguimento che sta dando i primi frutti in Borsa, ma che sconta ancora un pesante ritardo negli investimenti in ricerca e sviluppo.
I numeri raccontano un settore ancora dominato dagli Stati Uniti. Le 40 maggiori multinazionali della difesa hanno generato ricavi per 355 miliardi di euro nel 2023, con un aumento del 6,9% rispetto all’anno precedente. Di questi, il 68% è nelle mani delle aziende americane, mentre l’Europa si ferma al 27%. “Rendere più competitive le imprese del Vecchio Continente“, sottolinea il report di Mediobanca, “comporta un consolidamento industriale e una visione sovranazionale“.
Il gap è ancora più evidente nella ricerca e sviluppo. Le spese dell’Unione Europea in questo campo ammontano a 10,7 miliardi di euro, meno di un decimo dei 130 miliardi investiti dagli Stati Uniti. Come ricorda l’ex presidente della Bce Mario Draghi nel suo recente rapporto sulla competitività europea, “L’industria della difesa è troppo frammentata, il che ostacola la sua capacità di produrre su scala, e soffre di una mancanza di standardizzazione e interoperabilità delle attrezzature, che indebolisce la capacità dell’Europa di agire come una potenza coesa“.
Ma il sistema italiano è più articolato. L’Area Studi Mediobanca ha analizzato le 100 maggiori aziende nazionali del settore, tutte con fatturato superiore a 19 milioni e più di 50 dipendenti. Un comparto che vale 40,7 miliardi di euro di ricavi totali, di cui circa 20 miliardi direttamente legati alla difesa, e che occupa oltre 181mila persone, di cui 54mila nel settore militare.
La struttura proprietaria racconta di un settore ancora fortemente legato allo Stato, che controlla il 59,3% dei ricavi attraverso partecipazioni pubbliche. Significativa la presenza di gruppi stranieri, che pesano per il 25,1% del fatturato (12,2% europei e 10,1% americani). Le famiglie italiane controllano il restante 15,6%, con 56 aziende di dimensioni più contenute.
“L’Italia eccelle in alcuni settori cruciali come l’elicotteristica, l’elettronica e la cantieristica navale“, evidenzia il report, che sottolinea come il 68,2% della produzione sia destinata all’export. I mercati principali sono l’Europa (61% delle vendite), le Americhe (29%, soprattutto Stati Uniti) e gli altri continenti (10%).
La redditività del settore è in crescita, con un margine operativo salito dal 5,7% del 2021 al 6,2% del 2023. Nel triennio 2021-2023 le aziende hanno generato utili cumulati per 4,5 miliardi di euro, con un record di 1,6 miliardi nel solo 2023, pari a “43mila euro di utili medi netti al giorno per azienda“.
Secondo le sue parole, l’Europa è “seconda per spesa per la Difesa, nel mondo, dopo gli USA. Dopodiché nessuno scommetterebbe sulla nostra capacità di fare una guerra e vincerla. Ci deve essere qualcosa che non va”. Questa discrepanza solleva domande sulla gestione delle risorse e sulla coesione strategica tra i paesi membri. Draghi invita a guardare al passato per imparare dai successi europei, evidenziando come, nel lungo periodo, gli “ottimisti” abbiano dimostrato la solidità del progetto europeo, con progressi tangibili su più fronti.
“Io ottimista sull’Europa? Se si vuole essere pessimisti, beh, il pessimista resti a casa”, ha dichiarato con fermezza Draghi, riferendosi a coloro che vedono ostacoli insormontabili senza riconoscere i traguardi già raggiunti. “Il discorso europeo è tendenzialmente pessimista, tra chi sostiene che si potrebbero fare tante più cose e non si riesce, e chi sostiene che in Europa si è fatto troppo e ‘non vedo perché si debbano impicciare di cose nostre’”. Con il suo approccio, Draghi esorta i leader europei a superare il pessimismo e a investire nel progresso condiviso