di Vincenzo Corrado *
— C’è un silenzio strano nelle stazioni italiane. Non il consueto rumore di fondo fatto di annunci incomprensibili, sbuffi di treni in ritardo e imprecazioni sussurrate o urlate. No, è un silenzio composto, ordinato, quasi solenne. Un miracolo, direbbero alcuni. Una cospirazione, mormorano altri.
Tutto è iniziato in sordina, come spesso accade con i cambiamenti epocali. Nessuno si ricorda chi abbia avuto l’idea precisa o quale burocrate zelante l’abbia trasformata in realtà, ma il fatto è che una mattina, negli uffici della sede centrale delle Ferrovie dello Stato, la consueta foto del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stata rimossa e sostituita con un ritratto di Benito Mussolini.
Un ritratto particolare, va detto. Non l’iconografia più inquietante del Ventennio, ma una versione quasi kitsch: il Duce sorridente, con la mascella un po’ meno sporgente del solito, incorniciato da un’elegante doratura che sembrava rubata alla sala d’attesa di un parrucchiere anni ’80. Una foto che, se non fosse per il soggetto, sarebbe potuta tranquillamente finire in un negozio vintage di Porta Portese.
La notizia non ha fatto il giro dei giornali, ma ha iniziato a circolare tra i dipendenti con la velocità tipica delle chiacchiere d’ufficio: “Hai visto? Hanno messo il Duce in sala riunioni”. Inizialmente erano più i meme su WhatsApp che le preoccupazioni. Poi è successo l’impensabile.
Il giorno dopo, i treni hanno iniziato ad arrivare puntuali. Non “più puntuali”, come promesso in ogni piano industriale degli ultimi vent’anni, ma puntuali sul serio. L’Intercity delle 8:15? Partiva alle 8:15. Il regionale delle 17:32? Apriva le porte esattamente alle 17:32. Persino il Frecciarossa, da sempre il simbolo della puntualità flessibile (“Arrivo previsto: 12:00; reale: 12:04”), si allineava con una precisione cronometrica.
Nessuno credeva ai propri occhi. I pendolari, abituati a calcolare le proprie vite sulla base dei ritardi cronici, si trovavano smarriti. Chi aveva pianificato di leggere un libro sul binario si trovava con venti minuti liberi da riempire altrove. “Non so più chi sono”, confessava un ingegnere milanese con la voce rotta dall’emozione, sorseggiando un caffè troppo caldo per i suoi orari anticipati.
Le Ferrovie dello Stato, da sempre abituate alle polemiche, stavolta non sapevano come reagire. Comunicare il successo? Negare tutto? Limitarsi a un tweet con un vago “Grazie a tutti voi, i veri eroi”? Alla fine, optarono per il silenzio. Ma i treni continuavano ad arrivare puntuali. Puntualissimi. Troppo puntualissimi.
Naturalmente, qualcuno ha cominciato a indagare. Sociologi, storici, opinionisti e persino influencer con un passato da pendolari hanno cercato di dare una spiegazione razionale. C’era chi parlava di un effetto placebo collettivo, chi attribuiva tutto a un algoritmo misterioso, e chi, con il fare sornione di chi la sa lunga, concludeva: “Quando c’era lui, i treni arrivavano in orario”.
L’ipotesi di un’interferenza metafisica era troppo affascinante per non essere considerata. Alcuni sostenevano che il ritratto fosse una sorta di talismano. “È la mascella!”, suggeriva un esperto improvvisato durante un’intervista televisiva. “Quel mento potente comunica determinazione, disciplina. Perfino i macchinisti sentono il bisogno di rispettare l’orario”.
Intanto, le stazioni si riempivano di scene surreali. Gli altoparlanti, per anni colpevoli di annunciare orari a caso, trasmettevano messaggi precisi. La signora che gridava “ritardo accumulato di 20 minuti” sembrava essere stata rimpiazzata da un’entità robotica che scandiva i minuti come un metronomo. Nei bar, i caffè venivano serviti senza fila, sincronizzati ai movimenti dei passeggeri. Perfino i bagni pubblici erano diventati sinistramente lindi.
Era inevitabile che la questione arrivasse in Parlamento. Alcuni deputati di opposizione, indignati, hanno chiesto di rimuovere immediatamente il ritratto incriminato. “È un insulto alla democrazia!”, tuonavano nei talk show serali. Ma ogni volta che qualcuno proponeva di toglierlo, il servizio ferroviario subiva un’improvvisa crisi: ritardi, guasti, treni soppressi senza spiegazione. “Coincidenze?”, si chiedeva la stampa. Nessuno osava rispondere.
Nel frattempo, c’era chi proponeva di estendere l’esperimento. “E se mettessimo una foto anche negli ospedali?”, proponeva un giornalista sul suo editoriale della domenica. “Forse le liste d’attesa si accorcerebbero”. Altri ancora erano più pragmatici. “Guardiamo i dati, non le ideologie. I treni funzionano? Sì. La gente è felice? Sì. Allora basta polemiche”.
Nel frattempo, i pendolari si dividevano. Da un lato, i nostalgici del Ventennio, galvanizzati dall’idea che un pezzo di quell’epoca fosse tornato, si organizzavano in comitati chiamati “Pendolari per la Patria”.
Dall’altro, quelli che si aggrappavano disperatamente alla logica e ai valori democratici, pur soffrendo ogni volta che perdevano la coincidenza. E poi c’era la maggioranza silenziosa, la più difficile da classificare. Gente comune, che non voleva sentir parlare di politica, ma che ogni mattina si alzava con una sola domanda in testa: il treno delle 7:48 sarà puntuale anche oggi?
Molti vivevano questo nuovo ordine con un senso di colpa latente. “Io non sono fascista, però…” diventava il preambolo di ogni discussione. I bar si trasformavano in confessionali improvvisati, dove impiegati e studenti cercavano conforto in una brioche e un espresso.
Oggi, la foto di Mussolini è ancora lì, vigilante, come un’inquietante Madonna laica del trasporto pubblico. Nessuno sa bene cosa accadrebbe se venisse rimossa, e nessuno ha il coraggio di scoprirlo. I treni, intanto, continuano a essere puntuali. Forse troppo puntuali. A ogni fischio che risuona nella stazione, c’è chi si ferma per un attimo, osserva l’orologio e si chiede se la puntualità valga davvero il prezzo del compromesso. Una domanda a cui, per ora, nessuno vuole dare una risposta. E forse è meglio così.
*giornalista e scrittore, dirige Puntero
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Caro Vincenzo, il tuo articolo mi ricorda una esilarante battuta di Massimo Trosi quando gli dicevano che con Mussolini i treni arrivavano sempre in orario. “Allora, era sufficiente farlo capostazione”. Oggi, possiamo dire la stessa cosa per Matteo Salvini: anziché ministro dei trasporti bastava farlo assumere dalle Ferrovie dello Stato. Resta comunque valida la domanda: qual è il prezzo che siamo disposti a pagare per la puntualità? Ovvero, qual è il prezzo del compromesso? (pda)