Questo articolo è apparso su Agenda 17, il webmagazine del Laboratorio Design of Science dell’Università degli Studi di Ferrara. Lo pubblichiamo nella versione integrale con la cortesia dell’autrice.
Dalia Bighinati *
In questi anni nel nostro Paese si è parlato molto di progettazione urbana secondo diversi modelli di città: smart, green, ecosostenibili, sicure, accessibili e inclusive, città partecipate, città “30 kmh”, fino alla città “15 minuti”. Su Agenda17 troviamo anche il manifesto contro la città autoritaria e il modello della città felice. (Foto: Copenhagen)
In questo articolo vorrei proporre il modello della città femminista, una città a misura di donne, perché, come si evince dai modelli teorici e dalle sperimentazioni fatte, in Europa da Vienna e Barcellona, in Canada a Montreal, in Australia a Melbourne, “costruire una città che va bene per le donne significa costruire una città che va bene per tutti”, tenendo ben presente che una città femminista non è fatta soltanto di pietre, non è soltanto una diversa destinazione degli spazi pubblici o un’aggiunta a quelli esistenti, ma è un progetto unitario del vivere insieme.
Come sostengono, in Italia, le autrici dell’Atlante di Genere di Milano, Florencia Andreola, argentina e Azzurra Muzzonigro, romana, le donne dell’Associazione Torino città per le donne, il Forum Gli Stati Generali delle donne, il progetto delle Città delle donne, creato nel 2019 a Matera per promuovere una rete nazionale che unisca grandi città e piccoli paesi.
Le donne: maggioranza invisibile. “La gran parte delle città – spiega l’Undp (United Nations Development Programme)- sono costruite da uomini, per uomini, con poca o nessuna considerazione per i bisogni, le aspirazioni o la sicurezza di donne e ragazze.” Come dimostrano i dati riportati nell’analisi dal titolo Designing cities that work for women – What urban life says about gender inequality.
Le donne, che in Italia sono presenti in tutti i settori professionali e lavorativi, sono fondamentali nel lavoro in famiglia, sono la maggioranza fra le operatrici della sanità, nella formazione, nella Pubblica Amministrazione, continuano a essere invisibili o comunque sullo sfondo nei luoghi dove si prendono le decisioni che contano.
In particolare manca la loro voce quando si parla del disegno delle città future, a partire dal loro assetto urbanistico, in un momento della storia del Paese in cui i temi della rigenerazione urbana e della sostenibilità sono all’ordine del giorno nei progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e nei summit sui cambiamenti climatici e sulle loro conseguenze sulla vita delle persone.
Patriarcato scritto in pietra, mattoni, vetro e cemento. Le città, come luoghi dove si concentra la grande maggioranza della popolazione, sono, per citare la geografa statunitense Jane Darke, “Patriarcato scritto in pietra, mattoni, vetro e cemento” . Una definizione alla quale Leslie Kern, autrice de “La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini”, opera divenuta un best seller anche in Italia, aggiunge: “Una volta costruite, le nostre città continuano a plasmare e a influenzare le relazioni sociali, i rapporti di potere, le diseguaglianze innanzitutto di genere”.
Quando riusciremo a dire che le nostre città sono a misura di donna? Come fare per arrivarci e perchè dovremmo? Sono le domande che da qualche tempo diverse Associazioni femminili e femministe italiane si pongono, seguendo un dibattito internazionale diffuso, sapendo che “quando i responsabili dei progetti non tengono conto della diversità dei sessi, gli spazi pubblici diventano maschili di default. Solo che metà della popolazione mondiale ha un corpo femminile”, come scrive Caroline Criado Perez in “Invisibili – Come il mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano”.
L’Italia, nonostante abbia una popolazione femminile nettamente superiore a quella maschile, continua a trattare l’urbanistica come cosa da uomini e soprattutto come una realtà neutra. Così se una decisione è giusta per i maschi, che usano la città in un certo modo, deve esserlo, si pensa, anche per le donne. Non è così. “L’errore è quello di considerare neutro lo spazio, senza rendersi conto che gli spazi non sono mai neutri, ma femminili o maschili, i corpi che ne usufruiscono.”
Lo spazio pubblico non è neutro. E infatti ogni città nei suoi spazi pubblici, centrali e periferici è usata in modo diverso da uomini e donne, giovani e meno giovani, autoctoni e stranieri, persone sane e persone malate e la diversità riguarda molte voci, dall’utilizzo dei mezzi di trasporto a quello delle toilette pubbliche, passando per la percezione di sicurezza e la fruizione dei parchi.
Cartina di tornasole dell’attenzione riservata dalle amministrazioni cittadine alle donne e alle categorie più fragili sono i marciapiedi. Dal loro stato di manutenzione si rileva l’interesse degli amministratori pubblici per le mamme con i passeggini, le persone disabili, le donne indaffarate negli spostamenti quotidiani, come portare i figli all’asilo e a scuola, fare la spesa, accompagnare i genitori anziani ad un ambulatorio. Il tutto a volte in una stessa mattina, dopo aver chiesto un permesso dal lavoro, dove andranno nel pomeriggio, dopo la pausa pranzo, preparato da loro stesse per la sera e per chi torna da scuola. Senza contare la gestione dell’auto, il cui uso diventa inevitabile per contenere i tempi degli spostamenti, che con i mezzi pubblici si triplicherebbero. Sembrano banalità, ma è la vita di molte donne.
La città femminista è città della cura. La Città che Voglio, iniziativa interna alla prima edizione del festival “Women & the City”, che si è svolto dal 12 al 15 ottobre 2023 a Torino, ideato dall’Associazione Torino Città per le Donne, chiede, per aiutare ragazze e ragazzi a decostruire l’immagine interiorizzata della città, se le nostre città favoriscono la parità di genere negli spazi pubblici, nella scuola, nello sport, nelle proposte culturali, sui mezzi di trasporto (mobilità), nei servizi alla salute, nella ubicazione degli uffici per concludere con: “La città che sogni, rispetta l’ambiente ed i diritti di tutte e tutti?”. Una domanda che prefigura, come città ideale, una città attenta ai diritti di tutte le persone, aperta alle differenze e alla tutela dell’ambiente.
Una città ecosostenibile, ma anche una città della cura e delle relazioni, come scrive Annalisa Marinelli in “La città della cura. Ovvero, perché una madre ne sa una di più dell’urbanista”, che è certamente il paradigma più adeguato al governo delle cose e delle persone in una società ferita da una recente pandemia, dalla crisi delle nascite e dell’ambiente, crisi del modello di sviluppo e della coesione sociale.
L’Agenda ONU 2030, voluta per trasformare il pianeta in un luogo più vivibile, non a caso mette al quinto posto l’obiettivo dell’uguaglianza di genere, e disegna con illuminante evidenza, attraverso gli obiettivi 10, 11 e 16 , il progetto di una città che fa dell’uguaglianza dei diritti la sua cifra, una città senza barriere, ma con molte regole di rispetto reciproco, che sa trasformarsi da città fatta di luoghi separati da confini più o meno invisibili, in una città aperta alla convivenza e alla cura.
* Dalia Bighinati è giornalista e autrice televisiva, dirige il tv giornale di Telestense.